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Dal sentimento d’inferiorità alla compensazione

 

Passò del tempo, dopo i funerali di Micone - ai quali prese parte, coi figli, le nuore e i nipoti, l’intero paese - prima che lo sconcerto, la rabbia e l’afflizione per il grave fatto di sangue cedesse il posto al piatto vivere di sempre.
In questo frattempo, né indizi nuovi scaturirono dalle inve-stigazioni e dai riscontri del magistrato, che passò a setaccio dal primo all’ultimo del paese, né Pertinace cessò dall’imprecare contro le forze dell’oscurantismo, come lui le chiamava, tanto bene rappresenta; te - ormai se n’era persuaso - dalla mano che diede la morte a Micone.
Il tempo però è galantuomo e chi sopravvive finisce, sia pure a rilento, per darsi pace.
Così il paese sembrò ritrovare, sebbene ad una soglia qualitativa inferiore, la perduta serenità di un tempo.
Anche questa però ebbe durata relativamente breve, perché un certo giorno giunse una notizia che fece l’effetto di un fulmine a ciel sereno.
Che dovesse prima o poi arrivare erano in tanti a pensarlo; l’unica incertezza riguardava il momento preciso dello scoppio e l’entità dei danni; per il resto non c’erano dubbi.
Insomma, Filippo era stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale; la sua ragazza, quella della moto, aspettava un figlio da lui e per questo era stata cacciata di casa dai suoi genitori. In paese non si parlava d’altro.
La notizia fu portata a Pertinace da Mariascia ma non fece l’effetto e non provocò i commenti che ella si aspettava. Nel po-meriggio - era domenica e la temperatura ancora gradevole.

Pertinace decise di farsi la solita passeggiata al bosco di castagni - dove non si recava da parecchio tempo - per godere delle residue opportunità della buona stagione.
Davanti alla porta chiusa della bottega, Pietro aspettava il ri-torno dei bambini dall’oratorio. Salutò Pertinace e questi gli chiese del figlioccio. “È stato all’oratorio fin da questa mattina. Ora dovrebbe tornare coi suoi fratelli. Li sto aspettando” rispose Pietro. “E dopo cosa fai?” chiese Pertinace. “Avevo pensato di fare una partita a bocce” fu la risposta di Pietro. E insinuò “Ma se posso farvi compagnia, preferisco”. “Raggiungimi, se vuoi, al bosco” disse Pertinace mentre dal fondo del vicolo si udirono le voci allegre di una frotta di bambini fra i quali erano i figli di Pietro.
Pertinace attese l’arrivo dei piccoli, li salutò uno per uno e si incamminò lentamente lasciando che Pietro accompagnasse i figli a casa.
Pertinace non era tipo da prestar fede alle notizie riportate da altri e senza esitare si avviò verso la casa del medico. Aumentando o diminuendo l’andatura e facendo mostra di leggere il suo libriccino, evitò di farsi notare da qualche passante e, una volta giunto di fronte al portone, si guardò attorno e s’infilò dentro rapidissimo.
Si fece annunciare al medico e si intrattenne con lui per una buona mezz’ora. All’uscita, prima di immettersi in istrada, guardò a sinistra e a destra, attese qualche momento che si allontanassero due persone impegnate a voce alta in una banale disputa d’interessi e si avviò lesto verso il bosco. Era pensieroso e turbato, ma in fondo all’animo, chi sa per quale misterioso miscuglio di sensazioni e presentimenti, sentiva che nella casa del medico s’era chiuso un capitolo e se ne stava aprendo un altro.
Quando comparve al confine fra le acacie e i castagni e potè riconoscerlo chiaramente, Pietro trasse un sospiro di sollievo. Era lì, al solito posto, da parecchi minuti e non gli era mai accaduto di aspettare così tanto. A un certo punto aveva perfino pensato di tornare sui suoi passi nel timore che Pertinace si fosse sentito poco bene.
Non volle chiedergli i motivi del ritardo, lasciò anzi che si sedesse e deviò subito il discorso sulla notizia del giorno chie-dendogli: “Avete saputo?”. “Poveri ragazzi! Era fatale che qualcosa succedesse” rispose afflitto Pertinace “Io non conosco quella disgraziata ragazza, ma posso immaginarmela. Conosco però Filippo e, come molti in paese, temevo cose tristi”. “Ma sarà vera la storia della resistenza a pubblico ufficiale?” incalzò Pietro. “C’è di peggio” rispose sicuro Pertinace, facendo capire che la sua fonte d’informazione era attendibile. “D’altra parte” proseguì “non stava forse scritto nel gran libro del destino, dopo quello che abbiamo detto di lui e specialmente della madre? Ne parlammo già, se ricordi, di questo ragazzo. Egli sta comportandosi esattamente come prescrive la somma delle componenti formative che, dalla nascita in avanti, hanno agito su di lui fino ad oggi. La mamma, come abbiamo visto, si è attaccata disperatamente al figlio per colmare proprie carenze psichiche di vario tipo. Al figlio è mancato il padre, perché la madre lo ha completamente emarginato e quindi per il figlio è stato come non averlo”.
“Ora tu sai bene cosa vuol dire per un figlio non avere il padre”.
“Si crea anzitutto uno squilibrio perché l’educazione è trasmissione di conoscenze, di forza e di armonia, e se questi elementi provengono da una sola parte, se cioè non sono la somma di due addendi, la loro efficacia è molto, molto ridotta e il bambino è come se fosse defraudato, come se gli mancasse qualcosa. Come se tu, costruendo un armadio, trascurassi di affrancare una spalla o un’anta con i chiodi, la colla, gli spinotti, le cerniere eccetera. Succederebbe che l’armadio sarebbe un armadio per modo di dire, ne avrebbe cioè l’apparenza ma non la funzionalità”.
“Se poi quello che riceve il bambino è per giunta deformato, cioè non corrisponde alla realtà, si ottengono quei risultati che la madre ha ottenuto per Filippo. Il quale non ha potuto neppure superare la prova di Edipo”.
“E chi è Edipo?” chiese Pietro curioso.
“Si dice così per intendersi” rispose Pertinace “per rappresentare una particolare situazione del nostro inconscio quando siamo bambini intorno ai cinque anni. In parole povere, il figlio - come sostiene Freud, anche se non tutti sono d’accordo - vorrebbe la madre tutta per sé, la vorrebbe - come diremmo noi -
‘sposare’, ma trova un ostacolo insormontabile nel padre e de-sidererebbe ucciderlo. Esattamente come dicono che nell’antichità abbia fatto Edipo. Egli uccise, forse senza saperlo, suo padre Laio e sposò - anche qui, senza saperlo - sua madre, con tutte le conseguenze di sangue che ne derivarono”.
“Analogamente è per la figlia nei riguardi del padre. Essa vorrebbe uccidere la madre, e in questo caso si parla del ‘complesso di Elettra”. Entrambi, il maschio e la femmina, sentono questo istinto e ne provano rimorso fino a sentirsi in colpa”.
“Per tale motivo Edipo, quando scoprì d’essere egli stesso il colpevole di tante nefandezze (ebbe, fra l’altro, tre figli dalla propria madre) si strappò gli occhi c fuggì, mentre sua madre, Giocasta, si suicidò impiccandosi”.
“La vicenda (ma si tratta probabilmente di leggenda) è stata descritta da Sofocle, un grande scrittore dei tempi antichi, nella tragedia ‘Edipo re’”.
Pietro seguiva il discorso con interesse ma dallo sguardo Per-tinace capì che era nel contempo smarrito e turbato.
Disse Pietro: “Ma a tutti succedono queste cose? Come si possono risolvere?”. “Succedono a tutti e in apparenza quasi tutte queste situazioni sembrano risolte, ma non è vero” rispose Pertinace. “Non dico sempre, ma molte volte restano in fondo alla nostra zona incosciente dove le confina, strada facendo, l’educazione ricevuta, i principi morali, la raggiunta compiutezza psicofisica”.
“Altre volte invece, quando questo scudo manca si verificano, come già ti dissi, tremendi conflitti interiori che si trasformano in vere e proprie nevrosi. Vedi quindi il maschio che diventa aggressivo e disubbidiente col padre, lo evita e poi, paradossalmente, ne desidera il perdono, se lo vuole ingraziare. In altri termini, si inchioda alla madre, si svirilizza - se posso dire così - e tormentato dai rimorsi e dalle angosce, diventa vittima del sentimento di inferiorità e, non di rado, indifferente con le donne e perfino impotente”.
“Le stesse cose accadono alle donne nei riguardi del padre. Esse diventano aggressive verso la madre, la respingono, si ma-scolinizzano perché vedono nel padre il modello e l’idolo da imitare e vogliono rassomigliargli. Nel contempo, volendone ottenere protezione e affetto, si ostinano a perpetuare la loro condizione di donne-bambine, fino ad aborrire l’uomo, l’amore, la maternità.
“Certune - questo, quando non è acceso antimaschilismo, è paradossale - arrivano persino a nascondere o ad appiattire - mortificandole - quelle parti del corpo che, essendo fortemente erogene, l’uomo vorrebbe invece vedere, ammirare e laìsciarsene sedurre. E si vestono - compiaciute - da straccione, o quasi.
E quando si sposano, se si sposano, restano frigide o, in altri casi, del tutto bambine, senza l’amore come noi l’intendiamo e senza responsabilità”.
“Vedi, nel caso di Filippo prese il sopravvento il complesso di inferiorità.
“Buon per lui, si fa per dire, se l’influenza dell’ambiente e di qualche riottoso gene ereditario gli hanno consentito di attenuare la dipendenza dalla madre e di lasciarsi perciò attrarre da altre donne”.
“Comunque sia, il travaglio e il trauma di questo ragazzo sono stati lunghi e profondi e pertanto le conseguenze del suo malessere interiore non hanno tardato a manifestarsi in forme clamorose. E questo accade a lui e a tutti coloro che per un motivo o per l’altro si trovano nella medesima condizione, perché lo stesso complesso d’inferiorità, a simiglianza di certi dispositivi di autoregolazione, innesca fulmineamente il meccanismo della compensazione, un’irrefrenabile spinta in avanti alla ricerca di un contrappeso, il complesso - appunto - di superiorità”.
“Insomma, un artificio, un espediente architettato dal cervello per schivare o abbattere un’avvertita deficienza psicologica”.
“Ci fu chi disse che il sentimento d’inferiorità sarebbe ereditario, atavico, e scenderebbe dalla lotta che l’uomo sostiene con-tinuamente per adattarsi alle ostilità dell’ambiente”.
“Questo meccanismo è chiamato nevrosi di traslazione. A parte che, data la tremenda complessità della materia, questa tesi è tutta da dimostrare, personalmente sono convinto che frustrati, cioè posseduti dal complesso d’inferiorità, non si nasce ma si diventa: proprio per tutto quello che finora abbiamo detto”.
“Comunque sia, non è che il mio punto di vista possa fare testo, né che in questo campo si possano fare esperimenti per verificare su uno stesso soggetto quale sarebbe il comportamento in determinate circostanze e quale in altre. Con l’uomo bisogna andare molto cauti” e accompagnò queste ultime parole guardando Pietro fisso negli occhi e muovendo in su e in giù entrambe le mani aperte, come per invitare alla moderazione. Poi continuò: “Sta di fatto che osservando i comportamenti, lo stile di vita di un individuo, conoscendo a fondo l’ambiente, scandagliando la personalità dei genitori e dei consanguinei (e qui potrebbe forse entrarci un pizzico della nevrosi di traslazione di cui si diceva prima), si sarebbe portati a concludere come ti ho detto. Staremo a vedere”.
Pietro, come accade sovente agli studenti in medicina i quali, agli ultimi anni del corso di laurea, si sentono affetti da tutte le malattie di questo mondo, ebbe l’impressione - dopo il lungo discorso di Pertinace - di sentirsi a disagio nella veste di genitore e, dopo un momento di riflessione, credendo di defilarsi mescolandosi con l’umanità intera, intervenne: “Mi pare d’aver capito. E se ho capito vuol dire che non si salva nessuno o quasi. Mi rimane però un dubbio”. “E qual è?” chiese Pertinace. “Ferruccio. Non mi pare che rientri nel quadro che avete disegnato” rispose Pietro.“Già, Ferruccio!” disse Pertinace dondolando lievemente il capo avanti e indietro come se stesse per trovargli una collocazione adeguata nel quadro di cui parlava Pietro.
Esitò però un poco e, siccome Pietro gliene fornì il destro, ne approfittò per calare il discorso su taluni personaggi del paese che, a suo giudizio, erano evidenti portatori del complesso di cui stava parlando.
“Vedi” gli disse “non so se siamo fortunati o privilegiati, nel nostro paese abbiamo o abbiamo avuto quattro o cinque personaggi che potrebbero essere elevati a simbolo della nevrosi di cui stiamo discutendo. Questo non esclude che altri ne siano affetti, anzi io sono persuaso che moltissimi, chi più e chi meno, sono afflitti da questo benedetto complesso. Io stesso, che ti sto parlando di un argomento che esula completamente dalla mia professione e pretendo di saperla lunga su cose che richiedono invece studi e approfondimenti di molte discipline, probabilmente sto assecondando un istinto di superiorità che vuole compensare i modesti risultati, quelli che si vedono, ottenuti nell’esercizio del mestiere di maestro elementare”.
“Mi illudo che si tratti invece di incontenibile desiderio di conoscere i miei simili attraverso i loro comportamenti, e vado avanti così, senza la pretesa di voler cambiare il mondo, ma li-mitandomi ad una semplice testimonianza. Comunque, lasciamo perdere il mio caso e torniamo agli altri. Ti stavo dunque dicendo dei nostri amici paesani. Prendiamo proprio il caso di Ferruccio. Tanto per incominciare egli è di bassa statura e questa circostanza ne condiziona i comportamenti. Per di più è figlio, non so se hai fatto in tempo a conoscerlo, di un padre il cui stampo è diffusissimo più di quanto non si creda sul nostro pianeta”.
“Suo padre era cioè il classico padrone autoritario e dispotico, un dittatore domestico”.
“Sarebbe lungo che ti spiegassi i motivi che lo hanno portato a tanto. Accontentati di sapere che questa numerosa fauna è rap-presentata da vari tipi, ma due principalmente spiccano: quelli palesi e quelli mascherati. Il risultato però non cambia”.
“Essi si portano dietro il complesso di inferiorità e vogliono quindi apparire - attraverso un’operazione di riequilibrio, di compensazione appunto - quello che non sono, cioè potenti, su-periori, dominatori, per nascondere quello che in effetti sono, cioè deboli, timidi, insicuri. Vi sono dunque quelli palesi e quelli mimetizzati”.
“Quelli del primo tipo si manifestano senza mezzi termini, così come sono, ossia violenti, prepotenti, arroganti, suscettibili, cocciuti, indisponenti; in definitiva incapaci di distinguere fra autoritarismo e autorevolezza, che è ben altra cosa”.
“Puoi immaginare in famiglia quale atmosfera respirino i loro figli. I quali avrebbero bisogno di punti di riferimento sicuri e rassicuranti, di affetto, di disponibilità, colloquio, equilibrio, insomma di un modello certo e ricevono invece insicurezza, timore, dubbi, paura, silenzio”.
“Vedi bene di quali alimenti è pasciuto un bambino che cresca con genitori siffatti e domandati come può fare questa crea-
tura indifesa a diventare poi un uomo equilibrato se gli mancano i presupposti indispensabili, se cioè - tanto per rifarci a quanto già abbiamo visto - l’ambiente, o una sua componente importantissima, gli è ostile. Perciò, debole e smarrito, egli trova rifugio nella madre, la quale non aspetta altro”.
“Così, se la madre non è di quelle che assommano in sé le qualità proprie e quelle del marito - il che non è facile che si verifichi - il disastro è completo. Completo nel senso che essa colloca il figlio sotto la sua ala, non gli fa mancare nulla, lo coccola, lo vizia, ne ritarda irreparabilmente lo sviluppo e la maturazione e gli ‘prepara’ - se così si può dire - non pochi disturbi di varia natura, perfino nella sfera della sessualità”.
“Sicché questo giovane virgulto, senza un archetipo di virilità da copiare e possibilmente sopravanzare, avvertirà dentro di sé come un buco, una incompiutezza, un deficit e si sentirà inutile, collocato in una situazione di inferiorità, un fallito. Ne soffre, diventa intimidito e aggressivo, e perciò è un frustrato alla ricerca affannosa di compensazione, quando riesce a salvarsi dalla depressione, sempre in agguato”.
“Non ti dico cosa succede nel caso di una figlia! Qui si può arrivare a risultati di protesta nascosta o esplicita che, di volta in volta, può manifestarsi con atti di aperta ribellione, di rottura, di infantilismo, di rifiuto del ruolo, di mascolinizzazione, perfino di omosessualità. Insomma, c’è da tremare”.
“Ferruccio crebbe con un genitore del primo tipo. Per giunta, come si sa, è brevilineo. Ora ti spieghi perché ebbe quella reazione che ricordi: era il risultato di una compensazione”.
Pietro fu ora in grado di capire molte cose alle quali in passato non aveva prestato eccessiva attenzione. La stima per Ferruccio aveva agito fino ad ora come una lente deformante che ne rimpiccioliva i difetti e ne ingrandiva i meriti. La minuziosa descrizione che Pertinace fece dei meccanismi di formazione di certe nevrosi ebbe il merito, se non altro, di riportare il metro di giudizio di Pietro alle giuste proporzioni. E, come sempre accade in queste circostanze, l’operazione non fu senza sofferenza.
“L’altro tipo, quello mascherato” continuò Pertinace, è più subdolo perché si nasconde sotto altre spoglie, che sono quelle dell’uomo compiuto in ogni sua piega, dell’uomo perfetto, che - come tutti sappiamo - non esiste, dell’uomo che pensa a tutto, che assilla, che soffoca con le sue attenzioni, con le sue premure, con le sue preveggenze, che è puro, che ossessiona, per esempio, se il giornale non è ripiegato bene o se il portacenere è fuori posto, insomma il perfezionista per eccellenza, il ritualista maniacale. Costui, al pari del suo concorrente del primo tipo, soffre del medesimo complesso ed è l’esatto opposto di quello che manifesta di essere”.
“Si riempie la bocca di paroloni. Ti dirà che è un amante della libertà. Ma t’accorgi che questo tratto elevato del pensiero umano è banalizzato a livello di tornaconto personale, usato cioè per fare egoisticamente i propri comodi”.
“Ti dirà che è disponibile al dialogo. Ma appena apri bocca ti rendi conto che non ti segue, che è del tutto assente, assorbito da altri pensieri; in genere, anzi, alla ricerca compensatoria di argomento, anche estraneo, ma che stia alla pari con quello di cui tu stai parlando”.
“Ti dirà che è tutto d’un pezzo, ma in dozzine di circostanze non fa che cedere al primo soffio di vento o agli allettamenti dei più furbi”.
“Insomma si può concludere che attraverso il comportamento solo in apparenza irreprensibile, falsamente premuroso e disinibito, ostentatamente morale e ordinato, egli è alla ricerca disperata - a mezzo della compensazione - della sicurezza che non ha”.
“Si comporta in tutto e per tutto, ancorché con metodi diversi, come il dittatore domestico di cui ti dicevo prima. I risultati son identici”.
Se un esito immediato questo discorso ebbe, fu di far tirare un sospiro di sollievo a Pietro che, fatto un rapido esame di coscienza, credette di non riconoscersi né nel primo né nel secondo tipo. Egli chiese a Pertinace: “Anche di questo secondo tipo c’è qualcuno in paese?”.
“Come no?” rispose quello “Ce l’abbiamo tutti i santi giorni sotto il naso. E il direttore della mia scuola. Prova a fare, come si dice, un po’ di mente locale e ti convincerai. Guarda come si trascinano i suoi due figli e dimmi se non assomigliano a due pu-pazzetti, agghindati come sono di tutto punto che potrebbero
figurare in un vetrina di giocattoli. Ti sembra normale che un uomo come lui, in apparenza irreprensibile e perfetto in ogni particolare, debba ridurre i figli alla stregua di macchinette senza nulla della fanciullezza, della vivacità, della discoleria o indocilità e di quant’altro caratterizza e rende normali i piccoli della loro età? Per non parlare di quello che mi racconta un collega che ha occasione di andare di tanto in tanto a casa sua! Insomma, per farla breve, lavora, si esprime, si comporta in un certo modo soltanto per la facciata, dietro la quale, oltre all’egoismo, che è tipico di questi soggetti, nasconde tutta una serie di lati negativi che stanno sul versante opposto a quello nel quale vorrebbe far intendere di trovarsi quando è fuori di casa”.
“Gli altri compaesani, posseduti anch’essi dal sentimento d’inferiorità e i cui comportamenti sono pilotati in modo evidente dal meccanismo della compensazione li conosci anche tu. Comunque possiamo ricordarli”.
“C’è, per primo, Bicicletta che ci offre lo spunto per fare una considerazione aggiuntiva sul meccanismo di cui stiamo parlando. Egli da piccolo era un ragazzo felice come tanti altri, senza particolari problemi; ti dirò anzi che il suo ambiente familiare era in buon ordine. Ebbene, come sai anche tu, sui 12-13 anni questo ragazzo subì l’amputazione del piede sinistro per via di un incidente nel quale, se ben ricordo, c’era di mezzo un treno”.
“Puoi immaginare che cosa successe nell’animo tenero di un ragazzo di quell’età, pieno di vita, intelligente, bravo anche a scuola. Un trauma, un trauma che ha lasciato tracce profonde nel suo carattere, modificandolo. Dopo la guarigione e con la protesi al piede, ha dovuto affrontare il confronto con il mondo esterno, confronto che di certo aveva già iniziato a fare mentalmente appena si svegliò dalla narcosi dopo l’intervento”.
“Quindi venne il periodo dell’adattamento, dell’uso del piede finto e dell’inserimento nella vita di tutti i giorni, con tutto ciò che queste fasi comportano in termini di afflizioni d’ogni tipo”-
“Insomma, si sentì - oltre a trovarsene fisicamente - in quello stato di inferiorità che Adler chiamò ‘inferiorità d’organo’.
“A questo punto avvertì prepotente lo stimolo della compensazione e, come manifestazione appariscente, si rivolse e poi
si affezionò alla bicicletta. È per questo che tutti lo chiamiamo benevolmente così. La bicicletta, vedi, gli permette di sentirsi uguale agli altri perché, per prima cosa, favorisce l’occultamento della menomazione e secondariamente gli consente di muoversi con rapidità, cioè più svelto di quelli coi quali continuamente si confronta e rispetto ai quali si sente inferiore. In questo modo compensa il suo stato e si sente uguale o addirittura superiore agli altri. Col tempo divenne talmente abile che partecipò anche a gare ciclistiche di paese e ne vinse perfino qualcuna”.
“C’è chi dice, e questa è la considerazione aggiuntiva di cui ti dicevo prima, che esiste una specie di analogia con il meccanismo di compensazione quando accade che un organo superstite si sostituisca in tutto e per tutto a quello mancante o menomato e a volte lavora o rende per più di due messi insieme”.
“Ora Bicicletta fa il postino, che è il mestiere che più gli si attaglia e, lo vedi anche tu, è sempre in gara con sé stesso nel re-capitare lettere, raccomandate, espressi, pacchi, telegrammi nel più breve tempo possibile, con frenesia inesauribile. Anche questo è un modo di sentirsi superiore”.
“Come padre, certo, non si può pretendere che tutto vada liscio nella sua famiglia, perché la menomazione ha pesato sul suo carattere e sui suoi comportamenti. Però, tutto sommato, i suoi tre figli non denunciano finora grosse deviazioni. Si vedrà in seguito, perché certe cose sedimentano, lievitano e scoppiano quando meno te le aspetti”.
“Allo stesso modo di Bicicletta, con maggiore o minore accentuazione di certe manifestazioni esteriori in rapporto all’entità della menomazione e alle possibilità di mascherarla, si comportano coloro i quali, per nascita, malattia o accidenti vari, ‘si sentono’ fisicamente ‘inferiori’”.
Pertinace fece una pausa per liberarsi di una formica che at-traverso la calza, s’era avventurata oltre il ginocchio procurandogli un lieve, fastidioso solletico, e continuò: “Un altro esemplare che non si può trascurare è il vicesindaco, l’eterno vice- sindaco, che non riuscirà mai - e lui lo sa - nel suo intento di diventare sindaco. Nel nostro paese le cose vanno così. Il barone è il sindaco indiscusso, da una vita, per volontà popolare”.
“Suo padre lo è stato come lui, senza il consenso popolare a quell’epoca non richiesto, e suo figlio, c’è da aspettarselo, lo sarà altrettanto. Questo si verifica per due motivi molto semplici sui quali il vicesindaco non riflette e, se anche lo facesse, non avrebbe possibilità di influire. Il primo è l’antica ricchezza del barone che, fra le altre cose, gli ha permesso di utilizzare e far fruttare con intelligenza e lungimiranza le poche risorse di cui il paese dispone facendo costruire una fabbrica che dà lavoro a più della metà delle famiglie”.
“L’altro è l’atavica onestà degli appartenenti a questo casato, che assicura loro l’attaccamento della stragrande maggioranza dei paesani e la continuità, ad ogni elezione, dell’abbondante confluenza dei suffragi sul loro nome. Aggiungi a tutto questo, come se già non bastasse, che il barone è anche un bell’uomo e ti fai subito l’idea di quanto possa ‘sentirsi inferiore’ il suo vice. Costui, tutti lo sanno, è già la terza volta che tenta di soffiargli la poltrona di sindaco ed è la terza volta che è costretto a rassegnarsi a quella di vice”.
“Fisicamente non è un Adone, con quel naso di Pinocchio e le orecchie a ventola, e quanto alle ascendenze, non dico - per carità - che i figli debbano pagare per gli errori dei genitori, il metro di giudizio dovendo essere il valore intrinseco di ognuno di noi e basta, ma - sai come? - tutti sanno che suo padre ha riportato una condanna per bancarotta fraudolenta e che la sua vita sessuale non può essere considerata irreprensibile. Sono cosette che pesano, che lui vorrebbe scrollarsi di dosso e che invece rendono più acuta la sofferenza di sentirsi inferiore e più spasmodica la bramosia di rivalersi. Per un uomo come lui, che pure possiede discrete qualità di amministratore, questo doversi rassegnare al ruolo di retroguardia e lavorare perennemente all’ombra di una quercia che sembra incrollabile, ha significato, nel tempo, compressione delle proprie ambizioni, ridimensionamento dell’orizzonte e quindi restituzione alla sfera dell’inconscio, all’area emotiva, di quelle pulsioni che cercavano sbocco nell’affermazione, nella conquista della poltrona di sindaco”.
“Figurati che in municipio, quando il barone non c’è, si muove e si agita in modo elettrico come se fosse il padrone di tutto e di tutti, impartisce ordini, torchia il segretario e gli impiegati, riunisce commissioni, emana ordinanze, firma e vista la corrispondenza in partenza e in arrivo”.
“Manca poco che si vesta da vigile e distribuisca multe. Insomma si comporta come se fosse il sindaco in persona e in tal modo si sente appagato, compensato della sua minorità gerarchica. La gente ha percepito il suo tormento e gli ha affibbiato - con sottile crudeltà - il nomignolo di sindachino che, sotto sotto, non gli dispiace”.
“Ma ora lasciamo in pace il sindachino perché s’è fatto tardi e oltre tutto ho il rimorso d’averti imbottito la testa di tanti argomenti, col rischio di imbrogliarti le idee e portarti fuori strada. Andiamo” concluse Pertinace alzandosi e avviandosi.
“Al contrario” rispose Pietro “parlando dei nostri paesani, con esempi voglio dire, le cose mi risultano più chiare perché, come giustamente avete detto, arrivo a interpretare certi comportamenti ai quali prima non badavo e, se vi badavo, non riuscivo a dare loro una spiegazione. Anzi, per il vero, la davo sbrigativa, come fanno tanti: quello è elettrico, questo è curioso e ambizioso, e banalità di questo genere, buttate lì frettolosamente senza approfondire come fate voi”.
Imbruniva e il loro passo, dopo le acacie, si fece lesto. Arrivarono in fondo alla piazza del paese, prima del vicolo, che già erano stati accesi i lampioni. Pietro - non aveva mai osato - prese il coraggio a due mani e chiese a Pertinace se voleva restare a cena.
Pertinace ebbe un istante di esitazione. Gli parve che rifiutando l’invito potesse in qualche modo aggravare il senso di colpa per avere trattenuto Pietro così a lungo, per di più con discorsi che potevano essergli risultati pesanti e noiosi.
Accettare, d’altra parte, poteva dipendere da un calcolo pu-ramente egoistico e forse - è il caso di dire - di rimozione. Si sa che Pertinace era fatto in questo modo e che i dubbi non potevano che provenire dal suo essere scrupoloso fino alle sfumature.
Pietro non gli diede il tempo di comporre la controversia e aggiunse: “Vi accontenterete di quello che c’è. L’importante è di stare tutti insieme”. “Va bene” rispose Pertinace “dammi il tempo di mettermi un po’ in ordine e verrò. Farò in modo di non
farvi aspettare tanto” e si diresse verso casa mentre Pietro, allungando il collo fuori del portone, estese l’invito dicendogli: “Se credete, fate venire anche Mariascia” e scomparve.
Mariascia aveva preparato la cena e, quando Pertinace le disse di metter via tutto e prepararsi per andare da Pietro, si illuminò. Le ordinò anche di portare due bottiglie di vino vecchio e un salame.
La moglie di Pietro non si scompose alla notizia. In un batti-baleno accomodò la tavola per sette anziché per cinque persone e mandò il figlio grandicello a comprare dei dolci con la crema che venivano preparati soltanto alla domenica. “Se non ce ne sono più, ti farai dare dieci coppette di gelato” aggiunse, sapendo che i ragazzi in tal caso ne avrebbero mangiate due a testa.
Pietro per parte sua non stette con le mani in mano e non fece mancare le buone cose che si tengono custodite in cantina o in luoghi appositi per le grandi occasioni.
Tirò fuori anche una preziosa bottiglia di vino bianco fresco, marsalato, da bere dopo il dolce, che un suo zio otteneva - neppure tutti gli anni - dalla spremitura di uve quasi appassite. “Una galanteria” soleva dire, con espressione arcaica ereditata da chi sa quale antenato, quell’unica volta all’anno che aveva occasione di sturarla.
Fu una grande serata, non tanto per l’abbondanza delle portate - che pure risultarono fuori del consueto - quanto per l’atmosfera allegra che vi regnò e il grado di confidenza e i vincoli di amicizia che aumentarono e si rafforzarono. Pertinace, da fine osservatore, notò che Mariascia aiutò la moglie di Pietro per l’intera serata, rifiutando di farsi servire come gli altri e sedendosi a mangiare, leggermente spostata in fuori dalla tavola, soltanto se vedeva seduta anche la padrona di casa. Egli sapeva che sotto la scorza burbera e mascolina di Mariascia si celava un animo fondamentalmente sensibile e gentile e questa consapevolezza si andò a posare su una coltre d’euforia per l’eccellente qualità del vino.
Quella notte Pertinace dormì più saporitamente del solito.

 

Lorenzo Milanesi - Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"


 

 

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