Le colline erano ormai vicine e se ne distinguevano gli alberi folti e le
casette. Un passaggio a livello della ferrovia a scartamento ridotto che
serviva una decina di paesi, collegandoli con quella dello Stato, costrinse
il calesse ad una sosta prolungata. D’un tratto, dalla curva in fondo,
preceduta da un sibilo acuto, apparve nera e sbuffante la locomotiva con tre
rumorosi vagoni, uno dei quali, destinato per metà alla prima classe, aveva
i sedili, di velluto rosso, deserti.
Il macchinista salutò qualcuno e scomparve col treno nel fu-mo vorticoso
della caldaia e in quello azzurrino del suo eterno mezzo sigaro. Si alzarono
le sbarre e il cavallo riprese il trotto dopo aver superato le rotaie sulle
quali il calesse ebbe qualche breve sobbalzo.
Pertinace non si lasciò sfuggire l’occasione per prendersela con qualcuno
che non si decideva a sostituire le vecchissime lo-comotive che facevano
fumo e rumore e a modernizzare i passaggi a livello con sistemi a comando
che riducessero allo stretto indispensabile le estenuanti soste.
“Figuratevi se si preoccupano di queste cose!” intervenne Pietro.
“L’altro giorno - mi raccontava mio padre - due scagnozzi hanno obbligato il
macchinista a tenere fermo il treno in una stazione qui vicino, obbligandolo
ad aspettare l’arrivo di un pezzo grosso che era impegnato a concludere un
affare e che se ne venne con tutto il suo comodo, compiaciuto anzi di
trovare nel mezzo vagone di prima classe due suoi compari che lo riverirono.
E poi, le sole ferrovie? Qui c’è tutto da sostituire e da modernizzare, come
voi dite”.
“Hai ragione” disse Pertinace con tono dimesso “Anch’io mi sono lasciato
prendere la mano dalle banalità, sono caduto nella facile trappola dei
suggerimenti astratti che affiorano spontanei sulla bocca di tutti. Mille
volte abbiamo assistito a cose storte e mille volte ripetiamo queste
astrusità. Dovrebbero fare questo, dovrebbero fare quello, ci vorrebbe una
legge per questo, una per quello. La maggior parte della gente poi, come
conclusione delle innumerevoli storture, delle corruzioni, delle
prevaricazioni, degli abusi, delle prepotenze alle quali assiste o ne è
vittima, se ne viene fuori col dire che ci vorrebbe un poliziotto per ogni
minima cosa.
“Ce ne vorrebbe uno per il cane del vicino che abbaia in con-tinuazione, uno
per regolare le code negli uffici pubblici, uno ad ogni angolo di strada ad
acchiappare i ladri, uno onnipresente ad ogni sorpasso vietato o pericoloso,
uno a breve distanza dall’altro nei luoghi di villeggiatura o di fine
settimana per punire gli incivili che insozzano la natura, uno seduto a
fianco di ogni candidato ai concorsi per impedirgli di ricevere o copiare i
temi svolti da altri, uno o più in ogni luogo di trattenimento, uno su ogni
mezzo pubblico o su ogni vagone, uno ad ogni cento metri nelle linee
ferroviarie, gallerie comprese, per sorvegliarle dai malintenzionati, e così
via di seguito in infinite circostanze, sino a trasformare il nostro paese
in un grande casermone e i suoi disgraziati abitanti in un esercito di topi
ammaestrati. Per non parlare di quelli che, per ogni infrazione, anche
modesta, reclamano indicibili pene o mutilazioni corporali. E tutta gente
che, al di fuori della prepotenza e della violenza, mancando compieta- mente
di idee, non sa suggerire altro di meno turpe e aberrante. Considera poi che
tutte queste belle cose, chi le predica le vorrebbe per gli altri e mai per
sé stesso”.
“Certo che...” tentò di intervenire Pietro, subito interrotto da Pertinace
con un “Certo, che cosa?” avendo intuito che Pietro volesse dire che in
determinate situazioni non si può fare a meno di adottare misure ingrate.
E continuò: “Certo, un bel niente! I mali che ci affliggono, quelli di cui
tutti ci lamentiamo, non hanno bisogno di terapie in divisa. Se ti ricordi,
parlando del medico, il padre di Filippo, dicemmo che non si può cambiare la
testa a un uomo di quarant’anni”.
“È così per tutti. Allo stato in cui siamo io non vedo altra soluzione che
nei bambini. Sicuramente uno Stato autorevole, che non avesse timore di
essere forte con i prepotenti e non si vergognasse di essere debole e
soccorrevole con gli indifesi, avrebbe molto da fare da noi, in tutto il
Paese. Ma, come si dice, gestirebbe il presente, vivrebbe alla giornata,
senza futuro, e senza speranza. Brucerebbe enormi risorse per mantenere un
apparato forte, appunto, per fare sempre la faccia feroce ai mestatori, ai
corrotti e ai corruttori, ai ladri e a tutta la bella gente che sappiamo, ma
la mala pianta non la estirperebbe, nel senso che metterebbe in bilancio il
male, nelle sue varie forme di espres-sione, come fattore ineluttabile e,
ben che andasse, destinerebbe enormi e preziose risorse per difendersene in
eterno. Questa io la chiamo rassegnazione. Uno Stato invece che guardasse al
di là del proprio naso, che volesse veramente cambiare registro e rifondarsi
da cima a fondo, dovrebbe darsi una strategia di lungo periodo con
l’obiettivo di conseguire con assoluta, direi anche ostinata, determinazione
- fino allo spasimo - quello che sopra ogni altra cosa gli manca e cioè la
tensione morale, per mezzo della quale costruire un uomo nuovo, la nuova
società”.
“Questo non è che si possa ottenere dall’oggi al domani, ma se la classe
politica più illuminata arrivasse a concludere che così non si può andare
avanti, anzi che andando così le cose, pur con il lodevole impegno di
alcuni, l’uomo, sì, progredisce nei beni, ma si pietrifica e arretra nei
valori e, nella corsa affannosa al denaro, alla ricchezza e al potere, si
trasforma in un mostro fa-melico che non guarda in faccia nessuno e
distrugge il suo stesso fratello, tutto ciò che lo circonda e infine se
stesso, ebbene al termine di questo ragionamento la strada dei bambini io
penso che sarebbe obbligata. Del resto, non disse qualcuno che il cammino
più lungo comincia sempre dal primo passo?”.
Pietro non riuscì a cogliere il significato, estremamente sintetico, della
“strada dei bambini” e chiese qualche chiarimento. Ma s’era fatto
mezzogiorno e l’osteria nella quale Pertinace aveva progettato di consumare
il pasto era ormai alle viste. “Dopo mangiato ti spiegherò. Ora dobbiamo
scendere” gli rispose levandogli di mano le redini e facendo piegare il
cavallo per una breve discesa, al termine della quale si aprì un vasto
cortile nel verde e, sul lato sinistro, l’osteria tutta ricoperta dai tralci
di una vite secolare appesantita da enormi, vinosi grappoli di uva nera.
“Stacca il cavallo, fagli dare da bere e da mangiare - due chili di avena -
e poi vieni dentro che intanto faccio preparare per noi” disse Pertinace con
tono e gesti che denotavano dimestichezza con il luogo e le persone che vi
abitavano.
L’oste, un uomo tutt'occhi, elettrico nei movimenti, cessò la conversazione
con un domestico e si precipitò, servile, verso Pertinace che gli ordinò da
mangiare per due, raccomandandogli di curare il secondo piatto.
Consumarono il primo alla svelta e gustarono un secondo straordinario, fatto
di soli funghi porcini al salmoriglio. Pietro, pur essendo della zona, non
aveva mai mangiato funghi preparati in quel modo e attese l’oste alla
successiva portata per chiedergli come avesse proceduto. “Glielo dico io”
intervenne Pertinace rivolto all’oste con lo sguardo e a Pietro con l’indice
della mano destra.
Quando l’oste si allontanò, Pertinace cominciò a descrivere la ricetta.
“Si scelgono i porcini adulti e duri. Si puliscono bene dal terriccio, si
separano dal gambo e si lavano accuratamente elimi-nando col coltello le
piccole zone dove può annidarsi polvere e terra resistenti all’acqua. Si
asciugano e si tagliano i gambi in due parti per il lungo lasciando integre
le cappelle”.
“Si puliscono due spicchi d’aglio e si tagliano anch’essi per il lungo
infilandone tre, quattro pezzettini sotto ogni cappella e qualcuno nei
gambi, praticando con la punta del coltello picco-lissime fessure per
facilitarne l’inserimento. A questo punto i funghi vengono predisposti in
graticola ma non ancora sul fuoco. A parte si prepara il salmoriglio in una
larga scodella con: mezzo bicchiere d’acqua, due cucchiai di olio di oliva,
un po’ di sale, mezzo spicchio d’aglio tagliato finissimo e una spolverata
di origano. Tutto il composto dev’essere mescolato, perché si amalgami, con
un mazzettino di origano (bastano due o tre gambi). Ora la graticola coi
funghi si può mettere sul fuoco di carbone dolce, di faggio, su un treppiede
di ferro a circa venti centimetri di altezza dalle braci, umettando i funghi
con il mazzettino di origano inzuppato nel salmoriglio. Bisogna fare molta
attenzione e manovrare bene la graticola perché le gocce di salmoriglio che
cadono sulle braci, sprigionando improvvise e lunghe fiammelle, possono
danneggiare i funghi. Una volta che si giudicano pronti, diciamo dopo circa
dieci minuti, essi vanno deposti nella scodella del salmoriglio a uno a uno
e poi rivoltati perché si insaporiscano. Vanno serviti così e consumati
caldi co-me abbiamo fatto noi”.
Da lontano, l’oste assentiva ossequiosamente col capo, in un modo però del
tutto particolare, da saccente, facendo sospettare d’aver trascurato qualche
dettaglio della meticolosa ricetta di Pertinace.
Ma, si sa, i porcini sono ottimi bocconi in qualunque modo
li si faccia e Pertinace fu egualmente soddisfatto.
Dopo mangiato si sedettero all’ombra del pergolato nel cortile su due
vecchie poltroncine di vimini, ma la frenetica attività delle formiche ne
sollecitò la partenza. Pertinace pagò il conto, Pietro si incaricò del
cavallo, che dava segni d’impazienza per la molestia delle mosche, e
ripartirono salutati dall’oste che corse dietro per una quindicina di passi,
fino al margine del cortile, agitando nervosamente un tovagliolo bianco dai
bordi verdo-gnoli.
Ripercorsa la breve salita per riportarsi sulla strada principale, Pertinace
consegnò le redini a Pietro e si tolse il cappello di paglia per godere
della fresca brezza e mitigare le vampate di calore che salivano al capo dal
vinello nostrano servito dall’oste con calcolata generosità.
Pietro prese le redini, le collocò sulle ginocchia e si voltò ver-so
Pertinace. Lo vide con le palpebre abbassate come se fosse minacciato dal
sonno o non riuscisse a vincerne l’impellenza, e girò subito il capo in
avanti. Durò non più di cinque minuti il ri-poso, se così si può chiamare,
fino a quando, cioè, un breve tratto sconnesso della strada non fece
sobbalzare il calesse e risvegliare definitivamente Pertinace.
A lui bastarono questi pochissimi minuti per sentirsi, come immodestamente
si compiaceva di dire, fresco come una rosa.
Pietro, ancora stupito dalla precisa descrizione dei funghi al salmoriglio,
lo lasciò rientrare completamente in se stesso e gli chiese: “Ma voi anche
di cucina v’intendete?”. E Pertinace: “Stai dicendo cucina come se si
trattasse di argomento di infima importanza. Non è così. A parte che la
culinaria è un’arte e come tale va trattata, e mi rammarico di non
conoscerla a fondo, sostengo che ci sono piatti tipici in ogni zona del
nostro Paese che andrebbero salvaguardati dalla dimenticanza e dai pericoli
delle scimmiottature e valorizzati per come meritano”.
“C’è rischio che con la storiella del poco tempo disponibile da dedicare ai
fornelli, con gli spostamenti interni ed esterni di intere popolazioni, con
la pur legittima spinta verso la parità dei sessi e per una serie di altri
motivi che ti lascio immaginare, c’è rischio - dicevo - di trovarsi un
giorno con i funghi al salmoriglio in scatola”.
“Te l’immagini che razza di progresso sarebbe? Coltivando invece le
abitudini per i piatti antichi, quelli naturalmente meri-tevoli - e i funghi
di cui stiamo parlando lo sono senz’altro - a parte il piacere ineffabile di
consumarli, è come tornare bambini e rivedere con gli occhi della mente i
nostri genitori nell’atto di prepararli, che era poi, a suo modo, una
cerimonia”.
“Stamattina” intervenne Pietro “proprio dei bambini stavamo parlando, anzi
della strada dei bambini”.
“Ah, sì, la strada dei bambini! Sembra l’uovo di Colombo, ma presupporrebbe,
come dicevamo, una classe politica che prendesse risoluta coscienza di voler
risolvere in modo tutto nuovo, radicale, gli innumerevoli problemi che ci
travagliano, che non si rassegnasse a vivacchiare, più o meno bene, alla
giornata e decidesse di allungare l’occhio sulle nuove generazioni, sul
futuro, su una nuova società tutta da inventare: insomma, puntare tutto sui
bambini”.
“Questa classe sarebbe ‘politica’ soltanto in senso lato. Molti arricciano
il naso quando sentono parlare di politica e dimen-ticano che tutto, fra
virgolette, diventa politico quando ci sono scelte importanti da prendere”.
“Tu capisci che si ‘fa politica’ quando si debbano mettere in movimento
progetti imponenti e impegnativi e mobilitare verso un obiettivo di
altissimo, incommensurabile valore le risorse e le forze più importanti e
rappresentative di un Paese. In questo senso vedi bene che diventerebbe
essenziale la partecipazione non tanto di una classe politica vagamente
identificabile, ma di Parlamento, partiti, governo, magistratura, enti
locali, grande e piccola industria, sindacati, ordini professionali, mezzi
di comunicazione nella più ampia accezione del termine eccetera, giù giù
fino al più piccolo movimento per la difesa della qualità della vita”.
“Soltanto in questa maniera ci sarebbe, da una parte, la volontà
incrollabile di perseguire lo scopo, dall’altra, la sicurezza di
conseguirlo. Essa, per rendere l’idea con parole semplici e con certi fatti
accaduti qui da noi, dovrebbe prendere a modello il comportamento di Micone”.
“Quello che ha il podere e la casetta vicino al bosco di castagni?” chiese
curioso Pietro per essere certo della persona e poter seguire il
ragionamento di Pertinace con i riferimenti precisi.
“Proprio lui” continuò Pertinace “Vedi, certi particolari tu non li conosci
o forse li hai saputi vagamente, anche perché Micone ha fatto di tutto per
tenerli nascosti. Micone non è del no-stro paese. Micone viene da un Paese
lontanissimo nel quale la sua parentela, nonni, genitori, fratelli, sorelle,
zii, cugini, forma-vano una combriccola dedita ai traffici più illeciti. Si
andava dall’abigeato e dal pascolo abusivo, che furono le attività iniziali
del clan, alle deviazioni dei piccoli corsi d’acqua per alimentare vaste
tenute agricole estorte con le prepotenze, le intimidazioni e in qualche
caso la morte, fino al potere incontrastato degli ultimi tempi fatto di
corruzione su larga scala, collusione con gli organi preposti, soperchierie
d’ogni tipo e in tutte le direzioni, imposte dai larghissimi interessi nei
settori edilizi, alberghieri ed energetici (e in chi sa quanti altri
innominabili) con l’appoggio di una corte di faccendieri, professionisti di
grido prezzolati, nel furbastro tentativo di costruire una facciata di
verginità che coprisse l’infinita catena di malefatte”.
“Non so se lo scopo è stato raggiunto, ma le notizie fanno pensare al
crollo, al disastro e alla galera. Questo in estrema sintesi, con l’ovvio
tributo di morti ammazzati lungo una strada se-gnata da ricatti, attentati,
ferimenti e cosucce di questo genere”.
“Micone, con tutto l’impegno profuso dai suoi parenti per non fargli fare il
militare, fu chiamato alle armi quando la sua famiglia aveva concluso la
fase iniziale delle attività malavitose”. “Aveva quindi le carte in regola
per buscarsi qualche anno di carcere militare e alla fine tornarsene dai
suoi con questa benemerenza per svolgere il ruolo assegnatogli dalla
famiglia, chiamiamola pure così”.
“Le cose non andarono però in questo modo. Egli era un bel giovane, di
corporatura atletica, gli occhi che tiravano al verde, bellissimi, in un
viso dolce. I capelli castani e la pelle eternamente abbronzata per la vita
all’aria aperta. Sì, era un bel giovane. Tu lo vedi ora e non lo diresti, ma
era un bel giovane”.
“Orbene, egli ebbe la fortuna, durante il servizio militare, di imbattersi
in una di quelle persone che accade di incontrare una sola volta nella vita,
un uomo eccezionale, il suo capitano, che lo trasformò completamente. Lo
prese anzitutto come suo atten-dente e, nel tempo a disposizione, giorno
dopo giorno, lo in-dottrinò e lo indirizzò verso la giusta strada, al punto
da fargli rinnegare il passato e tagliare i ponti con la famiglia. Gli fece
amare le letture con due libri fondamentali, che a torto vengono considerati
soltanto per ragazzi: ‘Pinocchio’ di Collodi e ‘Cuore’ di De Amicis, una
buona parte dei quali egli mandò a memoria. Lo fece diventare insomma un
vero uomo. Tu pensa alla forza dell’ascendente! Micone divenuto ormai
persona avveduta, si propose di cambiare vita radicalmente e formare una
famiglia con criteri nuovi e diversi da quelli praticati nella sua”.
“Venne a vivere da noi, lavorò come un dannato - e lavora ancora, anche se
non si danna più - si sposò con una donna altrettanto quadrata che gli morì
pochi anni fa e dalla quale ebbe tre figli maschi”.
“Egli intuì, senza avere cultura ed esperienza ma soltanto gli
ammaestramenti del suo capitano, che per dare continuità e si-gnificato al
gesto di ribellione nei confronti del suo passato e del suo casato, doveva
allevare i figli in un modo ben preciso, altri-menti il suo gesto, la sua
svolta, potevano concludersi in un fallimento, e i figli - ne era convinto -
avrebbero calcato, chi in un modo e chi in un altro, chi prima e chi dopo,
la stessa strada che lui aveva rinnegato”.
“Lavorò, ti dicevo, come un cane, ma si dedicò ai figli con amore, con
passione, con severità a volte, pari però alla dolcezza. Altrettanto fece la
moglie e la mamma di questa, che Micone prese con sé dopo la morte del
suocero. Non fu mai ossessivo od opprimente perché la violenza, anche
verbale, o le punizioni, nella sua casa non si conobbero mai; del resto non
ce n’era bisogno. Nel suo giardinetto dietro casa era sempre un vociare
allegro di tantissimi bambini i cui genitori preferivano mandare lì a
giocare. I figli vennero su come meglio Micone non poteva desiderare, anzi
esattamente come desiderò: ammodo, nel senso più ampio della parola, sia in
casa che a scuola e fuori. E tutto questo fu il frutto dell’impegno, fino
alla dedizione, di Micone, di sua moglie e di sua suocera, che agivano quasi
in sincronia, guidati unicamente dalla forza di volontà del capofamiglia”.
“La sobrietà fu uno dei fondamenti in quella casa. Risparmiarono fino
all’ultimo centesimo perché i figli potessero studiare. Micone non s’è mai
fermato davanti agli ostacoli, e quando si trattò di fare l’ultimo sforzo
per il primo dei figli che doveva prendere la laurea in medicina, si
vendette un pezzo di terra senza le solite lagne di chi se ne sarebbe
rammaricato anche di fronte a un traguardo tanto grande”.
“Gli altri due, uno è geometra e lavora alle dipendenze di un Comune lontano
da qui, l’altro fa il meccanico di precisione in una grande fabbrica e
guadagna forse più degli altri due”.
“Tre eccellenti ragazzi, con tre famiglie piene di figli che cre-scono
esattamente come Micone fece crescere i loro padri”.
Pronunciò queste parole con tono di voce tremulo, ai limiti della
commozione. Pietro cercò di cogliere qualche conferma nello sguardo, ma
quello girò il capo e socchiuse gli occhi come per dissipare le tracce
evidenti del suo stato d’animo.
In quell’istante Pertinace rivide la sua scialba esistenza, di null’altro
accompagnata, né da figli, né da nipoti, né da parenti o amici, che non
fosse il grande amore per la conoscenza, per i bambini, per la natura e
l’inesausta speranza di imbattersi prima o poi in un amico vero al quale,
senza più le riserve per le delusioni patite, poter aprire finalmente il
proprio cuore.
Fu un attimo soltanto, ché si rimise a cercare rapidamente le fila del
discorso sul personaggio che ammirava oltre ogni dire e, se non si fosse
trattato di sentimento meschino ed estraneo alla sua natura, intimamente
avrebbe potuto anche invidiare.
E continuò: “Micone, non vuole muoversi da qui perché è attaccato alla terra
e al paese ancor più dei nativi e, quello che più conta, non si è montata la
testa per niente. I figli vengono spesso a trovarlo. Si può dire che un mese
sì e uno no ha in casa un figlio con la nuora e i nipotini. E ogni volta è
la solita musica: “Papà vieni a stare con noi, vendi tutto e vieni con noi”
e cose di questo genere.
Ma non c’è nulla da fare; Micone resiste e si sente felice di questo
andirivieni e del suo podere e delle sue capre”.
“Soldi ne ha quanti ne vuole perché i figli gliene mandano in abbondanza, ma
lui non li usa. Non ha bisogno di nulla o quasi, anche perché è sano come un
pesce. I soldi li mette alla Posta e ha fatto tanti libretti quanti sono i
nipotini”.
“Mi ricordo che la sua gioia più grande - viveva ancora sua moglie - fu
quando il maggiore dei figli, non ancora medico, venne in licenza, da
militare, con la divisa da ufficiale. Lo vidi piangere in silenzio per
l’emozione”.
“Eppure in quella circostanza evitò di uscire in paese in com-pagnia del
figlio in divisa, perché non si pensasse che lui volesse darsi delle arie.
Questo è l’uomo. Ecco perché, se ricordi, ti dissi una volta che Micone è
più saggio di quanto si possa immaginare”.
“Ora, per tornare al dunque, io non voglio neppure lontana-mente paragonare
la nostra classe politica alla famiglia di provenienza di Micone, né
tantomeno asserire che quello che a Mi-cone è stato relativamente facile
possa esserlo altrettanto alla nuova classe, quella che vorremmo avveduta”.
“Dico soltanto che costoro, prendendo atto con concretezza che la situazione
non può assolutamente essere cambiata, che
- cioè - le teste sono sempre quelle, nel senso e nella direzione di cui
abbiamo parlato, dovrebbero, da una parte, accontentarsi di amministrare nel
migliore dei modi il presente e, dall’altra, puntare tutto sui bambini,
scommettere sul futuro, impostare, col concorso di tutte le forze di cui
abbiamo detto, un disegno strategico di lunga durata che prevedesse, fin
dalle scuole materne, un insegnamento basato sui principi morali,
sull’educazione civica, sulla qualità della vita, sul rispetto del prossimo,
sul lavoro, sull’onestà e su tutte quelle altre virtù che fanno di un
selvaggio un uomo civile, probo, libero, moderno. Programmare insomma un
nuovo Umanesimo e un nuovo Rinascimento”.
“Tra parentesi, l’opera sarebbe enormemente facilitata con-siderate le
sconfinate capacità plastiche del cervello infantile. E, visto che siamo in
argomento, noto - ad esempio - che a nessuno è venuto in mente di affidare
gli alunni delle prime tre classi delle scuole elementari unicamente a
insegnanti di sesso maschile”.
“Di sesso maschile?” fece Pietro sbarrando gli occhi per sot-tolineare
l’enormità di quanto aveva ascoltato. “Non ti allarmare” disse Pertinace.
“Non sono, tu lo sai benissimo, un maschilista o un retrogrado. Se sostengo
questa tesi è perché ho ben presente l’importanza che ha per un bambino la
figura maschile, il modello paterno, da cui viene sicurezza e ascendente,
che sono le due cose principali che il bambino reclama e spessissimo non ha.
E, non potendoli ottenere, diventa aggressivo, indisciplinato e
ingovernabile senza averne colpa. Dalla quarta elementare in poi e fino alla
conclusione della scuola dell’obbligo il rapporto dovrebbe essere
rovesciato: moltissime insegnanti-donne e pochi, o nessuno, uomini. Comunque
non spaventarti, non se ne farà nulla, primo perché nessuno lo sa, e poi
perché occorrono generazioni per modificare certa mentalità crostificata”.
“Tornando al discorso generale, per fare quello che stavamo dicendo
occorrerebbe, è ovvio, un apparato e un corpo docente pari all’immane
compito. Ma è proprio qui che si misurerebbe la volontà di ferro della
classe nuova”.
“I risultati, di certo, verrebbero non in breve tempo; però nel giro di
due-tre generazioni, perseverando ostinatamente, ci sa-rebbe un tipo di uomo
nuovo, una società diversa dall’attuale, sicuramente migliore e forse
meravigliosa”.
“Il progetto nelle grandi linee è questo e avrebbe bisogno - si capisce - di
una serie infinita di dettagli che non sta a me indicare”.
“Un dettaglio, che dettaglio poi non è, è costituito dalla famiglia.
All’interno di essa - quando mancano saldi principi morali - maturano e si
consumano le distorsioni più vistose e i più obbrobriosi sconvolgimenti”.
“La partecipazione invece di una famiglia sana, con idee chiare sulla
grandiosità dell’obiettivo da raggiungere, sorretta e alimentata dalla
tensione generale e in particolar modo da tutti i mezzi di comunicazione
sociale, sarebbe il fattore decisivo per la riuscita del progetto”.
“Non vedo altro di meglio, altre alternative praticabili che non siano, come
si usa chiamarle, pannicelli caldi”.
Pietro non resistette alla solita tentazione e, quando capì che Pertinace
aveva concluso, gli disse: “Come faranno a sapere le cose che voi dite, solo
il Padreterno lo sa”. “Te l’ho già detto, Pietro, i libri non so scriverli,
non so scrivere come parlo e, fra l’altro, non parlo neppure tanto bene”
rispose Pertinace. “Sì, sono d’accordo con te che fin quando parliamo fra di
noi, tutto re-sta come prima” proseguì. “Ma sai cos’ha risposto una volta un
editore a un tale che gli mandò il suo primo manoscritto? Gli disse, in
sostanza, che lo aveva letto - il che probabilmente non era vero - ma che
lui pubblicava soltanto libri di scrittori già noti. Capito? Cosa dovesse
fare uno scrittore per diventare noto non lo spiego”.
Lorenzo Milanesi -
Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
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Amici Comit News - giugno 2014