UN'IMMERSIONE A FAVIGNANA
 

da RACCONTI DI VITA VISSUTA

(tratti da storie vere) 

di Massimo Messa

sito web http://www.massimomessaphotogallery.it/ 

 

 

 

L'Approdo di Ulisse, il villaggio-club dell'isola di Favignana, in quel pomeriggio d'estate dell'87 era in fermento. Nessuno sapeva se l'operazione subacquea avrebbe avuto luogo. Sembrava che dipendesse tutto da Uaco o, quanto meno da Uaco era dipesa la decisione di non dar luogo a procedere. Tutti lo sapevano. Il giorno prima era stato proprio lui, il capo dei sub, a mandare tutto all'aria, per non dire a mare. Con vigore, con determinazione, esercitando il suo ruolo di leader indiscusso, aveva agito. Con grande rammarico un po' di tutti. Ma era stata una decisione irrevocabile? 

 

Non riuscirò a scordarmi quella vacanza nell'isola di Favignana, in un luogo forgiato dalla natura e meno dall'uomo: una piccola baia, con un molo, una spiaggia di rena, una piscina di acqua salata e tante casette in tufo, fresche, accoglienti. Alle due estremità della cala si trovavano il buffet, sotto il pergolato, e un faro allampanato che dal tramonto all'alba dava la luce anche a noi. 

Con Ludovica avevo viaggiato in aereo sino all'aeroporto di Birgi, quello di Trapani. Da lì il pullmino del club ci aveva trasferito a Marsala e, nel porto di Marsala ci eravamo imbarcati, con gli altri e con un mucchio di zaini e valigie, su di un battello di venti metri, il Sandokan, che ci avrebbe trasferito, in circa un'ora di navigazione, sino al porticciolo del villaggio. A bordo vi erano degli autorespiratori (ARA), vale a dire delle bombole ad aria compressa da quindici litri, scariche, che qualche ospite si era portato con sé, considerato che lo sport principale era quello dell'attività subacquea. 

Anch'io ero un assiduo appassionato di quella disciplina e godevo del piacere di librarmi sott'acqua, a trenta, quaranta metri di profondità, in condizioni di gradevole benessere. Non avevo portato con me l'equipaggiamento completo, ma soltanto orologio, maschera e pinne, torcia sub, e il mio erogatore, la parte più personale di tutto l'apparato, visto che si deve stringere in bocca per tutta l'immersione. La muta, le bombole, il jacket e la cintura con i piombi mi sarebbero state assegnate dal club. 

Il Sandokan si approssimò all'approdo del villaggio ove molti ospiti stavano ad accoglierci, così come tutto il personale. Tra i tanti spiccava l'istruttore capo dei subacquei. Già distinguevo dal mare la sua corporatura imponente, la sua folta barba incolta e i suoi lunghi capelli, che facevano di Uaco un Rasputin in pareo. Me lo aspettavo. Lo avevo conosciuto l'anno precedente ad Arbatax, in Sardegna, e lo avevo apprezzato per la sua notevole esperienza. Era stato in India, a meditare, a seguire la disciplina yoga. Ora si occupava di sub: d'estate, in quel villaggio; d'inverno, nell'isola di Alimatha, alle Maldive, dove alloggiava nella sua barca a vela. Dopo essere scampato da un episodio di embolia, aveva deciso che solo laddove si fosse trovata a pochi passi una camera iperbarica, come ad Alimatha, si sarebbe immerso nuovamente, altrimenti avrebbe coordinato il gruppo dei sub e condotto il gommone che ci avrebbe trasportato nelle varie immersioni, dalla secca del toro, a quella di cala rotonda, alle grotte di Marettimo. Quando ad Arbatax gli avevo domandato come si sarebbe comportato qualora nell'Oceano Indiano si fosse imbattuto in un squalo bianco, mi aveva risposto che lo avrebbe ucciso con la stessa facilità con cui mi aveva stretto la mano. Uaco, uomo di un metro e novanta di stazza, camminava sempre a piedi nudi, aveva quarantaquattro anni, era carismatico, con lo sguardo intenso e fiero di incorreggibile sciupafemmine. L'avrei potuto testimoniare. Ma teneva un buon rapporto anche con i sub. A me aveva trasmesso la sua concezione del mare. Secondo lui il mare non era il "mondo del silenzio", come molti l'avevano definito, era un mondo percorso da messaggi mentali che non si percepiscono con le orecchie, ma con il cuore dell’uomo. 

Appena mi vide sbarcare dal Sandokan, si ricordò di me. Mi si fece incontro e mi salutò accennando il namastè, il saluto indiano, a mani unite, con le dita rivolte verso l'alto all'altezza del petto, accompagnandolo con un leggero inchino del capo. Mi fece piacere e gli dissi che anche quell'anno sarei stato della partita. "Ne sarai fiero!" mi rispose. 

Ci assegnarono il nostro cottage. Uno spettacolo! Muri spessi mezzo metro costruiti col tufo locale ricavato a Cala Rossa, vista mare, tra oleandri rosa. L'interno era molto fresco, disponeva di un'anticamera circolare con divano, il guardaroba e un bel tavolo: da una parte il bagno doccia, dall'altra due gradini per la camera da letto. 

Un vecchio casotto da pesca in muratura. Nel pomeriggio avevamo appuntamento lì. Era un ambiente umido e completamente in ombra. Il magazzino sub ospitava la ricarica per le bombole, una grande vasca di acqua dolce, ricavata nel tufo, per il lavaggio del materiale, e dei ganci lungo le pareti per appendervi le mute. M'incontrai con Uaco e con i suoi: Mario, di Bergamo, Paolo, di Verona, e una biologa marina che si chiamava Simona, pure di Verona. Al primo impatto, mi piacevano. Sembravano seri e tosti. Vi erano altri nove sub che, come me, desideravano sapere come sarebbero state impostate le immersioni. 

"Disponiamo di due grossi gommoni" disse Uaco "L'Ufo, che può contenere venti persone e il Bimbo che ne tiene sedici, bombole comprese". 

L'Ufo e il Bimbo erano stati fatti costruire in Argentina, di supporto a una spedizione all'Antartide partendo da Ushuaia. Poi non furono più ritenuti idonei e messi all'asta. Il club li aveva comperati come maggior offerente. 

Ci spiegò che ci avrebbero divisi in tre gruppi, uno assegnato a Mario, l'altro a Paolo e il terzo a Simona. L'indomani sarebbe stato dedicato a farci riprendere dimestichezza con la subacquea. Per essere ammessi, a turno avremmo provato delle situazioni di emergenza da superare prima in piscina e poi in mare. Consegnarono mute e jacket a ciascuno di noi mentre, per quanto riguardava le bombole, a parte tre di noi che avevano la propria, ogni giorno avremmo dovuto usarne una diversa in modo da farle ruotare ed evitare di lasciarne qualcuna per troppo tempo inutilizzata. Nel magazzino si trovavano quaranta bombole, numerate dall'1 al 40. Ci assegnarono quelle per l'indomani. A me sarebbe toccata la 24. Infilai quattro piombi da un chilo nella mia cintura e l'appesi sulla prima gruccia libera. 

Terminato il raduno preliminare, tornai in camera da Ludovica che, nel frattempo, aveva svuotato le valigie ed esposto sul davanzale della finestra alcuni pezzi di tufo trovati accanto all'ingresso. Uscimmo a prendere possesso del villaggio. 

Bella la piscina rettangolare, già impegnata da diversi bagnanti con la regola indiscussa di non tuffarsi mai lateralmente, ma di nuotare sempre per il lungo seguendo le corsie delineate sul fondo vasca. Di 25 metri per 10, disponeva di due porte per giocare a pallanuoto. Bei ricordi per me. Avevo portato la calottina rossa del numero 1 e, se ci fosse stata l'occasione mi sarei di certo candidato come portiere. C'erano un anfiteatro con un teatrino coperto per gli spettacoli serali, quindi il deposito biciclette, due campi da tennis e, al centro, la palazzina della direzione. Il tutto tra ulivi e oleandri. Nella baia erano ormeggiati, il Sandokan, l'Ufo e il Bimbo e sulla piccola spiaggia alcuni kayak rossi o blu. 

Accanto alla zona ristorazione era l'Habitat di biologia marina: una grande vasca a forma di cubo che incorporava sul fondo tre rocce prelevate dal mare, e molte pietre tra cui si nascondevano delle piante acquatiche. Vi erano gorgonie e roselline di mare, due paguri bernardo e un paio di granchi di notevoli dimensioni, delle attinie, un piccolo polpo, sarpe, occhiate e castagnole e qualche altro pesciolino di scoglio: un vero spicchio di mare ben curato. Veniva gestito ogni giorno da Simona. 

L'indomani mattino, mentre Ludovica prendeva il sole nella caletta, in piscina iniziarono le prove. I miei compagni erano piuttosto esperti e Daniele, un ragazzo di Brescia, era capace di resistere in apnea statica sino a tre minuti senza risentirne! Sandro, di Bologna era più anziano di me, sui quarantacinque, ma era di una calma e di una perizia evidenti. Per quanto riguardava me, mi accontentavo dei miei quattro secondi di apnea tra un'ispirazione e la successiva. Poi ci trasferimmo alla fine del molo. Si formarono dei gruppi distribuiti tra gli istruttori Mario, Paolo e Simona. Io, Daniele e Sandro fummo aggiudicati a Simona per la simulazione di emergenza. Simona era una bella donna, sui trentacinque, con un viso intelligente e un seno gentile. Attrezzati come per un'immersione seria, ci buttammo in mare l'uno dopo l'altro. Simona ci dispose in cerchio, sul pelo dell'acqua, accanto al pallone-sub, come da manuale, memorizzò i nostri nomi e disse: "Ora scenderemo a venti metri poi io fingerò di non avere più aria e di svenire, ciascuno di voi dovrà salvarmi riportandomi in superficie, come da teoria, usando la tecnica del narghilè. Quando mi darete il vostro erogatore voi dovrete prima inspirare, lo stesso farò io quando ve lo restituirò... Osservazioni?". Ci era tutto chiaro. Poi Simona mi fissò negli occhi e decise di partire da me. Sandro e Daniele avrebbero dovuto attendere la fine del mio esercizio, sdraiati sul fondo, poi lei sarebbe di nuovo scesa per la seconda prova e così via. 

A venti metri, Simona si strappò l'erogatore di bocca, agitò una mano tesa davanti alla bocca, spalancò gli occhi, che segnalavano paura, verso di me. Mi avvicinai rapidamente, inspirai e le passai il mio erogatore, le infilai un braccio sotto un'ascella mentre manovravo l'altra mano per il narghilè. Lentamente - la velocità di risalita non deve superare i dieci metri al minuto - ci portammo verso la superficie. La simulazione era durata quattro minuti abbondanti. Una volta emersi, Simona mi indicò la scaletta del molo e ridiscese. Quando anche Sandro e Daniele ebbero terminato l'esercizio, ci liberammo delle bombole e ci sedemmo tutti e quattro con le gambe a penzoloni verso il mare. Simona ci fece le sue osservazioni. Ci disse in generale che non sapeva bene se, nel caso in cui non si fosse trattato di una simulazione, si sarebbe salvata. Perché mai?

"Perché mi avete trattata da fichetti" ci rispose "Vi siete limitati a mettermi una mano dietro la schiena... il che non sarebbe stato sufficiente se io fossi stata male davvero! Voi dovevate abbracciarmi con sicurezza, stringermi tanto forte da farmi male, avvicinare le nostre teste il più possibile, in modo robusto, oserei dire virile!".

Ne rimanemmo mortificati. Poi Sandro rispose che, trattandosi di una donna, non avevamo voluto approfittarne per palparla.

"Ragazzi, quando uno rischia di morire, questi scrupoli non devono esistere, palpate, palpate chiunque stia male, uomo o donna, pur di salvarlo!".

"Beh, allora vorrei riprovare!" disse sorridendole, questa volta senza esitare, Daniele.

"Sai che cosa dicono a Verona?" il volto di Simona si era fatto più serio.

"Cosa?".

"Ogni lasciata è persa!".

"Si dice anche a Bologna!". Sandro, mentre si toglieva la muta.

"Quindi ve la siete giocata tutti e tre!" intervenne Uaco che si stava avvicinando a noi e di cui avevo già notato due piedi nudi che smobilitavano accanto a noi, sempre seduti sul molo, e aggiunse: "Anche per i prossimi giorni calma di vento. Domattina andremo a cala rotonda, ci troviamo qui alle dieci".

Sistemammo il nostro materiale nel magazzino, secondo le regole che conoscevamo: svuotamento della bombola, lavaggio di muta, pinne e maschera e quant'altro necessario a mantenere l'ordine, a beneficio di una buona organizzazione.

Salutai e mi allontanai dagli altri. 

Ecco la mia fetta di paradiso adagiata sulla sdraio: Ludovica era ancora là, aveva nuotato in piscina e aveva fatto qualche conoscenza, tra cui una coppia di svizzeri. Tutti avevano notato le nostre teste armeggiare al largo del moletto. Come prima giornata-sub potevamo ritenerci soddisfatti. 

Alla sera tutti gli ospiti avevano preso posto in anfiteatro per la presentazione dello staff. Si aprì il sipario del teatrino e ci trovammo un microfono impugnato dal Direttore. "Benvenuti a tutti! Sono il Dottor Salvatore Marino, sono nato a Favignana e ho la responsabilità gestionale del villaggio". Si presentò, era sui quarantacinque, poco rappresentativo, di bassa statura, tipico topo da scrivania. Ma fu accogliente. Ci illustrò le diverse impostazioni del villaggio, dagli orari dei pasti, alla prenotazione dei campi da tennis, alle modalità di noleggio biciclette e aggiunse che nel suo ufficio era presente una cassaforte disponibile per i clienti. Dava l'aria di essere padrone di ogni minima peculiarità dell'isola e pensai che, per qualsiasi evenienza, mi sarei rivolto a lui. Poi lasciò spazio ai vari personaggi del club: i cuochi, gli animatori, i maestri di tennis, di canoa, di nuoto e, infine i sub, che avevo già conosciuto, ma che Ludovica osservò con la massima attenzione visto che avevano a che fare con me e, come diceva lei, con la mia vita. 

Poi prese inizio lo spettacolino serale. "Battute balbettate come granturco gettato ai piccioni" come sosteneva con un po' di snobismo Ludovica, che preferiva villaggi senza animatori. Ma alcune scenette furono piuttosto divertenti. 

L'indomani partenza per cala rotonda. Immersione a trenta metri in tutta tranquillità. Uaco guidava l'Ufo. A bordo eravamo in tredici più il materiale. Furono definiti tre gruppi da quattro, uno guidato da Mario di cui facevo parte io insieme a Daniele e Sandro, uno da Paolo e uno da Simona. 

L'immersione fu un incanto, per cinquanta minuti. Trovai tra le rocce sommerse prima una grossa cicala che si agitava nella sabbia per sparire dal mio sguardo, poi un paguro rosso vivo con un'attinia violetta sopra al guscio. Lo afferrai con due mani e mi spostai di quel tanto che bastava per porgerlo a Simona, nel caso le interessasse per l'acquario. Niente affatto, me lo strappò dalle mani e lo ributtò verso il fondo. Evidentemente l'equilibrio biologico della vasca era già stato stabilizzato e non c'era più spazio per metterci altri ospiti senza il pericolo di scatenare una guerra tra titani. 

Quando sbarcammo, considerato che sull'Ufo c'era spazio libero, chiesi a Uaco se l'indomani avrei potuto portare a bordo, come passeggero osservatore, Ludovica. Mi rispose di sì, ma che non l'avrei dovuto fare tutti i giorni. Per quella settimana due o tre giorni erano assicurati. Ritornato nel cottage, Ludovica si accorse subito che il mio orologio, un Aquastar, si era guastato. Probabilmente era entrata acqua dai pulsantini laterali. Era vecchio di tanti anni e mi aveva accompagnato in diverse immersioni. Sapevo che non c'era niente da fare e che avrei dovuto procurarmene un altro. L'indomani, prima dell'appuntamento delle 10, sarei andato in paese. 

Difatti mi alzai presto quel mattino, chiesi a Ludovica di aspettarmi al molo dove più tardi avremmo dovuto imbarcarci insieme. "L'abitato di Favignana sta a pochi chilometri dal villaggio" le dissi "Sarò di ritorno entro mezz'ora, tre quarti d'ora al massimo". "D'accordo, sarò là" mi rispose "Fai pure con comodo". Inforcai una delle biciclette a noleggio e pedalai sino al paese. Mi avevano indicato l'unico negozio di orologi presente sull'isola, in via Florio. Lo raggiunsi in una decina di minuti. Ma era chiuso. Che ore fossero non lo sapevo. Per fortuna una signora che stava innaffiando i gerani sul suo balconcino mi disse che il negoziante abitava lì sopra e di chiamarlo al citofono. Così feci e mi trovai faccia a faccia con un ometto siculo. Aveva in dotazione una testa calva e adorna di due orecchie appuntite, simili a quelle di un elfo. Con tutta calma, scese, smanettò alla serratura del negozio, dove entrammo insieme. Accese le luci, aprì la cassaforte e mi mostrò, su di un vassoietto in velluto rosso, alcuni orologi subacquei. Di Aquastar non ne aveva, ma, tutto sommato, a me bastava che nella cassa fosse incisa la scritta Waterproof e che reggesse, per maggior sicurezza, una pressione di almeno cinquecento bar, vale a dire quattrocentonovanta metri di profondità. Con questi parametri vi era un solo orologio di marca Breil, un po' costoso, trecentomila, ma non c'erano alternative. Decisi di comprarlo ma l'omino non accettava carte di credito, né assegni, ma solo contante. In paese non vi erano distributori Bancomat nelle due banche locali. Entrai in quella accanto alla casermetta dei carabinieri e feci presente la situazione. Proposi un'operazione di anticipo contante con carta di credito oppure di cambiarmi un assegno. Il cassiere mi rispose che, non essendo cliente, non era possibile accogliere la mia richiesta.

La cosa si faceva complicata. Chiesi del direttore. Era lì a due passi: un uomo tarchiato e baffuto, che mi ricevette in piedi ma gentilmente. Gli dissi che anch'io lavoravo in una banca. Ma quando mi parve di essermi accaparrato il suo interesse, scorsi nei suoi occhi un gelo rivelatore.

Mi disse: "Vede, signore, noi non la conosciamo, se lei avesse qualche referente che garantisca per lei, allora potrei venirle incontro".

Gli spiegai che mi trovavo al Villaggio L'Approdo di Ulisse. Allora un sorriso si dispiegò sotto i suoi baffi e mi disse "Guardi, le consiglierei di parlarne allora col direttore del suo villaggio, il Dottor Marino, che conosco personalmente e vediamo cosa si può fare".

L'operazione per il semplice acquisto di un orologio si faceva sempre più complicata. Chi avrebbe immaginato che avrei dovuto portarmi con me trecentomila lire in contanti, che all'epoca non erano pochi, in quanto Bancomat, carta di credito e assegni non venivano accettati su quell'isola? E non stavo acquistando un cammello! Diedi un'occhiata all'orologio della banca. Segnava le nove meno un quarto. Ripresi la bicicletta e pedalai verso il villaggio. Altri dieci minuti. 

Il Dottor Marino era nel suo ufficio. Gli esposi la mia esigenza. "No problem" mi rispose "faccio subito una telefonata in banca". Evidentemente gli avevo detto quello che per lui era sufficiente sentire, ma sembrava anche che fosse lì ad aspettare queste occasioni per mettersi in mostra. E, in mia presenza, chiamò il direttore con cui avevo parlato. Gli disse che ero un cliente affidabile, che lui garantiva per me e di cambiarmi pure l'assegno. C'è gente che pagherebbe per vendersi! Lo ringraziai, ripresi la bicicletta, pedalai per altri dieci minuti, entrai di nuovo in banca. Il direttore mi venne incontro sorridente. Si costrinse a un moto di simpatia, si tinse lui stesso di affabilità e diede disposizione al cassiere di cambiarmi l'assegno. 

Finalmente ebbi in tasca le trecentomila lire necessarie. Ritornai al negozio. Per fortuna l'omino c'era. Se ne stava seduto a prendere il sole su una seggiola di legno impagliata del tipo che si usa all'oratorio. Al mio arrivo si alzò. Gli sventolai davanti al naso le banconote. Quello non disse una parola. Entrammo di nuovo insieme nel negozio. Mi porse il cofanetto con l'orologio e mi disse. "L'ho già caricato". Mi prese le trecentomila e mi diede lo scontrino. Guardai il mio nuovo orologio. Erano le nove e quarantacinque. "Al pelo!" pensai. Mi chiusi il cinturino di gomma nera al polso e di nuovo mi infilai nella bicicletta con i minuti contati. "Speriamo di non bucare" mi dissi. Pedalai di buona lena e alle dieci in punto ero al magazzino dei sub. In lontananza Ludovica, in bikini rosso, prendeva il sole all'estremità del moletto. Beh, la biciclettata mi sarà servita come allenamento per l'apnea, mi dissi soddisfatto, anche per dare una giustificazione costruttiva a quella banale compravendita che aveva risvegliato la mia ansia, per fortuna ben digerita. 

I sub erano pronti per l'immersione del giorno, me compreso. Appesantiti dalle bombole e dalle borse, ci incamminammo in fila indiana sul molo. Uaco era già sul gommone insieme a Ludovica, che si era sistemata come una sirena. "Oggi, calma di vento da tre giorni, direzione secca del toro!" ci disse senza un cenno di un sorriso Uaco. Wow, soddisfazione per tutti: una signora immersione! Avremmo esplorato la secca più bella delle Egadi. Calammo bombole e materiale sub secondo i canoni prestabiliti, entrammo nell'Ufo e pochi minuti dopo partimmo. Mostrai il mio orologio nuovo a Ludovica. La mia compagna, rilassata e già un poco abbronzata, mi mostrò i suoi occhi intensi, che avevano sempre dato una carezza alla mia vita, e mi disse: "Bello! Un oggetto maschile che sprizza virilità".

"Andrò fiero di portarlo, allora!" grato del suo apprezzamento.

Poi mi chiese della secca del toro. Le risposi sfoggiando la mia dottrina: "Si trova sul versante meridionale dell'isola, a circa due miglia marine da Punta Longa. E' il principale punto d'immersione delle Isole: un vasto pianoro con fondali tra i sei e i sessanta metri. E' costituita da grandi massi monolitici di granito."

"Ma voi a che profondità andrete?".

"Non te lo so dire, penso che staremo sui quaranta".

"Non sarà pericoloso?".

"Quando il mare è agitato potrebbe esserlo, dato che ci sono delle correnti, ma, hai sentito Uaco? Da tre giorni il mare è calmo".

Forse si tranquillizzò.

Mi sentii di aggiungere: "Ludovica, non ti allarmare se non mi vedrai uscire subito. Di solito esco per ultimo per usufruire della maggior decompressione possibile, ok?"

"Ok, sii sempre prudente".

"Lo sono. Hai visto stamattina, mi è partito l'orologio e l'ho voluto subito rimpiazzare per evitare di scendere senza. E poi la scuola e l'esperienza di Uaco sono una garanzia".

Si infilò gli occhiali da sole che le cancellavano i suoi begli occhi e si appoggiò con la testa alla fiancata dell'Ufo senza badare alle mie labbra che le massaggiavano la nuca, all'attaccatura del collo. 

Il gommone partì rapidamente, sollevando la prua, trasportava quattordici passeggeri, tra cui una turista curiosa. Il sole splendeva lungo il percorso e ci fu spazio anche per cantare insieme qualche pezzo di Fabrizio de Andrè e Simona scoprì in questa circostanza un gran bella voce. 

Le squadre ormai erano confermate, le stesse del giorno prima. Dal ciglio del gommone mi gettai all'indietro dalla parte di Mario che era già in acqua. Noi quattro ci controllammo negli occhi e al cenno di ok da parte di tutti ci si immerse. Il blocco di granito era già lì a pochi metri. lo sfiorammo e proseguimmo in profondità costeggiando la parete. Mario, conosceva delle tane e l'una dopo l'altra ce le indicò. Una coppia di murene abitava un pertugio della roccia, un polpo stava nella propria tana, conformata secondo i criteri di questo animale straordinario, con un gradino prima dell'ingresso, per maggior difesa, e almeno due camere interne. Il polpo si spostava lentamente senza uscire dal suo spazio, mi parve enorme. Poi ci fermammo in un bosco di gorgonie di varie fogge e dimensioni. Guardai il profondimetro, eravamo a venticinque metri. I colori erano alterati dalla carenza di luce, ben diversi dalla realtà. Accesi allora la mia torcia per vedere i colori naturali di quella foresta di pace. Mario ci indicò una bella cernia, con due labbroni ammiccanti, che si allontanava verso il basso. Riuscivamo a intravedere il fondale molto più sotto di noi. Seguimmo la cernia e ci trovammo su una piattaforma di granito delle dimensioni di un tavolo da ping pong. La cernia era scomparsa più sotto, in un prato di posidonie. Marco ci indicò il profondimetro. Eravamo a quarantacinque metri. Ci sarebbe toccata una decompressione piuttosto lunga. Ci fece cenno di risalire. Mi mossi sopra il tavolo da ping pong sin dove incontrava la parete e mentre i miei compagni proseguivano un po' discosti, io proseguivo sfiorando la roccia. La seguivo lentamente verso l'alto. 35 metri, 30, 25. Poco dopo la parete si distendeva in orizzontale sino a disperdersi nel blu: un enorme campo di calcio questa volta, folto di vegetazione. Mi scontrai con la maschera in un bosco di gorgonie tutte di grosse dimensioni. Fu lì, sui 22 metri, che osservai, mimetizzato con il colore della roccia, quello che mi sembrava un oggetto intruso. Sembrava un pezzo di ceramica. Sì, lo era. Proprio così, si trattava in un'anfora, lunga e snella. Cavolo, un'anfora antica, forse! Raggiunsi Mario che si trovava qualche metro sopra di me e gli indicai che avevo visto qualcosa di interessante. Guardò il mio manometro, non ero ancora entrato in riserva. Intanto anche gli altri due si avvicinarono. Riscendemmo di poco. Mario spostò dei detriti che circondavano l'anfora, la toccò con entrambe le mani e cercò di sollevarla, sembrava incastrata, ma non così tanto, poi si staccò, era color crema, con alcune patelle e altri molluschi appiccicati sulla parte superiore. Era intatta. Gli occhi e i gesti dei miei compagni mi facevano capire che eravamo di fronte a una scoperta importante. Mario mi fece segno che non potevamo fermarci molto per via delle tappe di decompressione che ci aspettavano a 12, 9, 6 e 3 metri. Ciò, pur sapendo che sotto l'Ufo penzolavano, come ciambelle di emergenza, due bombole piene d'aria alle quali erano applicati due erogatori ciascuna. Mario aprì la cerniera grande del suo jacket e ne estrasse una matassa di sagola gialla. La dipanò, vi avvolse l'anfora con molta cautela, quasi come se fosse un artificiere che stesse manipolando una bomba con la sensibilità di una donna. Alla fine la imbragò per bene formando come una rete per tutta la sua lunghezza. Poi prese un palloncino rosso, sgonfio, lo applicò in cima alla sagola, che mi sembrò assai lunga. Si staccò l'erogatore di bocca e pigiandolo ritmicamente fece uscire un buon quantitativo di bolle d'aria sotto il palloncino per gonfiarlo. Ora il palloncino tendeva a salire verso l'alto. Mario lo lasciò andare mollando la sagola in relazione alla salita di quello che sembrava una medusa impazzita finché raggiunse la superficie e si assestò come una boa nel mare. Per noi quattro fu come gustare un piccolo show. 

Ora ci mancava la decompressione. Ci attaccammo alla cima dell'ancora di Uaco e, con diligenza, rispettammo tutte le tappe programmate. Mario riemerse per primo, io per ultimo. Risalendo a bordo, ci rendemmo conto che c'era un po' di tensione da parte di Uaco per via dell'orario. Mentre gli altri gruppi erano già rientrati da tempo sull'Ufo e si stavano rilassando al sole, il nostro era stato sotto quasi un'ora. Eravamo in ritardo sull'orario di rientro al villaggio. Uaco aveva visto quel palloncino rosso come una boa sul mare, ma non ci faceva domande. Mario, che era una persona allegra e positiva, si rivolse al suo capo e gli disse che avevamo trovato un'anfora antica, che lui l'aveva imbragata e legata alla sagola del palloncino. Uaco, in tutta risposta, avviò il motore per spostarsi quel tanto che bastava per afferrare il palloncino rosso. Lo prese, lo sollevò dal pelo dell'acqua, poi sfilò il coltello che teneva nella fondina sul polpaccio è tagliò la sagola che, in tal modo, separata dalla sua boa, s'inabissò. Poi rimise il palloncino in mare e lo allontanò dall'orizzonte di mezzo metro, quanto bastava per lasciarlo alla deriva. Freddati da quella operazione, ci guardavamo in faccia senza che nessuno provasse a dissentire. Però Sandro tendeva i muscoli del viso. Sì, si preparava a essere calmo nel contrapporsi in tono garbato, e infine disse: "Uaco, è un'anfora romana o greca, ha un valore archeologico. Non possiamo abbandonarla!".

La risposta di Uaco non prevedeva repliche perché ci suonò come una sentenza. "Che le cose del mare si lascino al mare! Il mare è il solo padrone delle sue meraviglie!". 

Ripartimmo ammutoliti.

Ero per davvero dispiaciuto, l'avevo trovata io e sarebbe stato un bel cimelio accanto al ricordo di una gran bella immersione.

Mentre si sbarazzava della muta, Daniele si avvicinò per comunicarmi sotto voce:

"A costo di ritornarci da solo, quell'anfora la recupero io!".

"Ci torneremo insieme, vorrai dire" gli risposi. 

Intanto Ludovica si tolse gli occhiali neri e mi guardò, strizzando le palpebre. "Non ti vedevo riemergere, stavo in pensiero, gli altri erano già tutti riemersi!". Non era bastato dirle che per abitudine preferisco essere l'ultimo. Poi si mise a ridere osservando il solco ovale che mi aveva lasciato la maschera tutt'intorno agli occhi. Ma passai a ben altro argomento. Mentre l'Ufo filava come un delfino, le partecipai con calma la storia del ritrovamento e la bellezza di quell'anfora.

"Di che forma era?" mi chiese "Snella o panciuta?".

"Snella, a forma di siluro, con due manici" risposi.

"Allora si potrebbe trattare di un'anfora punica, per il trasporto del vino".

"Quindi un'anfora di valore!".

"Altroché, da esporre in un museo, come hanno fatto per i Bronzi di Riace".

"Cavolo, perciò sarebbe un peccato lasciarla lì".

"Eh, certo, quasi un delitto se pensi che, se è legata a una sagola, qualcun altro la troverà presto".

Mi convincevo sempre di più che dovevamo recuperarla. Guardai verso Mario, che mi sembrava un po' giù per il rimprovero di Uaco. Gli sorrisi, alzai il pollice verso l'altro e gli sussurrai: "Mario, torniamo a riprenderla!". Mario mi guardò negli occhi e senza parlare mi fece un cenno affermativo. Ne avremmo riparlato presto! 

Una volta sbarcati al villaggio, ci separammo.

Presi per mano Ludovica e andammo al buffet. Ci trovammo Anna e Frank, la coppia di svizzeri che la mia compagna aveva già conosciuto alla caletta, sotto il sole. Inutile dire che l'argomento di conversazione fu ancora l'anfora. Ma avevo capito che i nostri interlocutori avrebbero indetto un referendum prima di stabilire se recuperarla o no. Lasciai Ludovica in pasto a loro e mi ritirai nel nostro cottage. Accaldato, mi buttai sul letto per sgranocchiare un pisolo. Ero davvero stanco. A buon diritto desideravo riposare un po'. 

Avevo dormito sodo. Presi il mio Breil che avevo posato sul tavolino, sopra un fazzoletto a scacchi, e lo decifrai. Erano le quattro pomeridiane. Mi dispiaceva un po' lasciare spesso Ludovica da sola, anche se la nostra comprensione reciproca aveva raggiunto la profondità in cui due persone che si integrano possono comunicare anche col silenzio, e mi affrettai a raggiungerla. 

Nell'uscire incontrai Simona e le chiesi: "Ci starebbe bene un'anfora punica nel tuo bell'acquario. Che cosa ne pensi?".

"Penso che dovresti chiederlo a Uaco, non a me". Solenne e distaccata.

"Lo so, lo so che Uaco è il leader, ma questa volta si tratta di un caso eccezionale".

"Allora parlagliene tu, che sei un cliente, io me ne guardo bene, è il mio capo".

"Lo farò senz'altro" e ripresi il sentiero. 

Eccola là Ludovica, spalmata di crema sul bagnasciuga, ancora in compagnia degli svizzeri. Mi avvicinai. Mi fermai un istante a esaminarla con attenzione. La mia Ludovica: da lei ero sempre stato attratto come dall'aria quando stavo sott'acqua, in apnea, prima di riemergere. Il suo corpo si manteneva bene, come una diva, come una dea. Ed era per me. Aveva gli occhiali da sole, ma i suoi occhi erano chiusi. La baciai sulla fronte e le chiesi: "Perché porti gli occhiali da sole se non ne hai bisogno?".

"Oh, mi sono addormentata... Tesoro, sai che cosa sta succedendo al villaggio?".

"Non posso saperlo, ho dormito anch'io".

"Ricordi che cosa diceva Fabrizio de André nella canzone che ha cantato stamattina Simona?".

"Beh, ne ha cantate tante, che cosa diceva?".

"Una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall'arco scocca vola veloce di bocca in bocca".

"Ah, sì. Bocca di Rosa".

"Proprio così, tutto il villaggio, dal cuoco al maestro di tennis, sta parlando della tua anfora. Ma pare che Uaco sia irremovibile".

"Sai che cosa faccio, Ludovica? Vado a parlarne al direttore!".

"Ottima idea, tieni duro!" m'incoraggiò. 

Il direttore sapeva già tutto, aveva parlato con Uaco e aveva telefonato ai Carabinieri. Mi disse: "La provincia di Trapani è molto ricca di vestigia romane, greche e fenicie. Qualora un'anfora venga rinvenuta sui fondali dei nostri mari, questa diventa un bene patrimonio dello Stato. Pertanto abbiamo il dovere di recuperarla e consegnarla ai carabinieri".

"E i Carabinieri cos'hanno detto, direttore?" chiesi, dopo aver inghiottito con soddisfazione la bella notizia.

"Oh, loro avrebbero preteso che voi vi immergeste di nuovo oggi pomeriggio e consegnaste subito il tesoro. Ma non è possibile, voi oggi avete già fatto un'immersione impegnativa e il mare nel pomeriggio s'ingrossa. Li ho fatti parlare con Uaco, che ha promesso il recupero per domattina". 

Lo ringraziai e ritornai da Ludovica fregandomi le mani. "Prepara la macchina fotografica" le dissi "Domani giornata storica!". 

La sera, ai tavoli del buffet non si parlava d'altro. Io, Mario, Sandro e Daniele ci scambiammo un ok d'intesa. Ce l'avevamo fatta. Simona venne al nostro tavolo per dirmi che l'indomani ci saremmo immersi soltanto noi quattro, gli altri avrebbero fatto da spettatori. Simona avrebbe armato anche il Bimbo, per dare un po' di companatico agli ospiti del villaggio che si erano dimostrati così interessati. Quasi quasi c'erano da fare delle prenotazioni. L'Ufo più il Bimbo avrebbero imbarcato oltre trenta persone. Un piccola epica babele. Il tutto per la mia anfora! 

Quella notte sognai il fondo del mare. Inondata dalle mie emozioni, si era forse stabilita una transizione tra il mio inconscio e la mia parte razionale. La visione onirica del mare significava il desiderio di "vedere" più chiaramente, di far luce su una situazione pendente? Quando mi alzai dal letto, il ricordo del sogno era svanito. Colsi il corpo nudo, ancora assopito, di Ludovica che mi deliziava. Era così che rinascevo ogni giorno, con quella visione. Il pensiero si metteva in moto da solo, come se nel cervello avessi un pendolo caricato sull'ora più propizia purché non mi scordassi di quell'appuntamento. 

La partenza fu in orario. Uaco era sorridente. Stentavo a crederlo. Mi guardò negli occhi e disse: "La devi recuperare tu, ok?". Che soddisfazione!

I due gommoni partirono con calma pieni di spettatori. Tra me e la mia bombola, Ludovica sempre più abbronzata, poi Mario, Sandro e Daniele. Uaco al timone, come sempre. Il Bimbo, nelle mani di Simona, ci seguiva. 

Il mare continuava a mantenersi tranquillo, arrivammo sopra la secca. Mario si immerse per primo seguito da noi tre. Poi, senza esitazioni, ci immergemmo alla ricerca di una sagola gialla. Ci ricordavamo abbastanza bene il percorso seguito il giorno prima: non ci volle molto per individuare la sagola ed io fui il primo a raggiungere l'anfora. Questa volta Mario aveva portato con sé un pallone più consistente. Si assicurò che l'anfora fosse fissata bene, gonfiò il pallone con molta aria, lo affrancò a una nuova sagola assai più corta della precedente. 

Vedemmo salire l'anfora come un missile, fuoriuscire dal pelo dell'acqua e ritornare giù di quel poco che la sagola gli permetteva, per poi assestarsi, rimanendo appesa, a mollo nel mare, sotto quella boa improvvisata. "Forse Mario ha gonfiato troppo il pallone" - pensai, sperando che il nostro tesoro non si fosse rotto. 

Risalimmo nello spicchio di mare tra i due gommoni. E, mentre qualche scatto fotografico immortalava noi quattro intenti ad accarezzare l'anfora in mare, ci fu anche uno scroscio di applausi. Per me il sorriso di Ludovica. Issammo il trofeo, così imbragato, verso Uaco, che lo sistemò con cura sull'Ufo. Gli occhi e i commenti di tutti noi erano incentrati su di esso. Ripartimmo a bassa velocità, soddisfatti del buon esito dell'operazione e Uaco disse: "Il mare è il vero tesoro, senza il mare non potremmo vivere". Era vero. Sotto il sole di mezzogiorno certamente la frescura che veniva dal mare era una manna dal cielo per noi. Imboccammo il porticciolo e pensavamo, una volta a terra, di fotografare per bene l'anfora prima di consegnarla. 

Ma ecco quattro ombre blu svettare sul moletto, quattro carabinieri in appostamento. Proprio come nella canzone di de André: Ed arrivarono quattro gendarmi, con i pennacchi, con i pennacchi e con le armi. Accanto a loro il Dottor Marino che si sbracciava per segnalarci il punto di approdo. Accostò prima l'Ufo, poi Simona con il Bimbo. Uaco sbarcò con un balzo e chiese a Mario e a Paolo di passargli l'anfora. Si avvicinarono anche i carabinieri che avevano con sé un carrello con due grosse ruote gommate e l'intelaiatura a scaglie di legno del tipo che serve per trasportare le bombole. Su di esso era stata fissata una coperta di tipo militare ripiegata più volte allo scopo evidente di accogliere l'anfora senza correre il rischio di danneggiarla. In pochi minuti, con tutti noi rimasti sui gommoni, i carabinieri sistemarono il tesoro dello Stato su quel carrello e, senza molte cerimonie, lo trascinarono fuori dal villaggio dove era parcheggiato il loro furgoncino. 

Accusavamo la mancanza dell'anfora quasi come la perdita di un amico, ma, probabilmente, avevamo fatto ciò che era giusto. Quella sera un gruppo di noi, costituito da una ventina di persone, me e Ludovica compresi, festeggiammo l'evento alle Due Sorelle, il ristorante più noto di Favignana, con una ricca portata di pasta alla bottarga. Pagava il Club! L'indomani comparve un trafiletto sul Giornale di Sicilia che enfatizzava la prodezza del Villaggio L'Approdo di Ulisse. C'erano i nomi del direttore e di Uaco. Marino ne aveva fatte comperare una trentina di copie che furono distribuite agli ospiti. Ludovica ne ripose una copia nel nostro trolley

Al termine della vacanza, mentre viaggiavamo sul Sandokan, pieno di valigie, che ci riportava a Marsala, ancora si parlava tra i passeggeri di questa avventura e qualcuno aveva già fatto sviluppare i rullini di fotografie. Qualcuno ci aveva anche filmato con delle cineprese.

 

Oggi sappiamo che la nostra anfora punica è esposta al Motya Museum, tra i mulini a vento dell'Isola San Pantaleo, sulla costa tra Trapani e Marsala, dove qualcuno di noi si è recato, in religioso pellegrinaggio (nel rispetto dell'11° comandamento: Non dimenticare), per ammirarla, restaurata, alla luce del sole. Anch'io ci andai con la mia Ludovica. La nostra anfora svetta tra altre sei ritrovate nel mare di Favignana.

 

Massimo Messa (Milano)

 

 

 

 

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