I debiti di Adele
Le speranze del parroco e la
fine di Micone
La
richiesta di Adele al parroco perché convincesse Pertinace a
fare da padrino a Luigino poggiava su un presupposto
fondamentale. Che, cioè, una volta divenuto padrino, Pertinace
cominciasse a frequentare la casa del figlioccio, come usava in
paese, e così il marito non fosse distolto, con l’assiduità di
prima, dal suo lavoro di falegname. Ciò che in effetti poi
avvenne, anche se con minore assiduità di quella sperata da
Adele, perché Pertinace era intransigente nel mantenere
l’abitudine delle passeggiate nel bosco.
Era un ragionamento lucido, di pura convenienza, utilitaristico,
dettato dalle preoccupazioni di una madre avveduta e, tuttavia,
flessibile e conciliante nei riguardi di Pietro, il quale poteva
così accudire al lavoro principale e vedere assecondato nel
contempo il desiderio di dissertare con Pertinace addirittura in
casa propria o nel magazzino. Che era poi quanto di meglio il
marito potesse desiderare.
Ora che lo scopo era raggiunto, Adele si sentì in dovere di
mantenere la promessa fatta al parroco con le ultime parole di
quella famosa mattina “Se concludete vi dirò poi perché” e ne
aspettava il momento favorevole, senza tuttavia andarlo a
cercare, nel timore che il solo manifestare soddisfazione
potesse avere effetti negativi sulla tenuta della sua
costruzione.
Era un atteggiamento scaramantico, tipico di tante persone
semplici che, pur proclamandosi religiose e praticanti, si
lasciano sedurre e condurre a tal punto dalla superstizione da
non capire che le due cose, religione e superstizione appunto,
sono assolutamente incompatibili, nel senso che la presenza
dell’una esclude giocoforza quella dell’altra.
Ma l’occasione si presentò un giorno che il parroco fu chiamato
a portare l’estremo conforto a un vecchio contadino che occupava
due misere stanze di una casupola all’interno del cortile
dov’era la casa di Pietro.
L’arrivo fu preannunciato dai rintocchi lenti e tristi di una
campanella in mano a un chierichetto, che precedeva il parroco
con la stola violacea al collo e l’aspersorio in mano, e seguiva
il sacrestano, solenne sotto la lunga croce in legno, sorretta
da entrambe le braccia, con lo sguardo fisso in avanti come se,
anziché a una pietosa funzione, partecipasse alla sfilata
militare.
Quando i rintocchi cessarono, Adele scostò una tendina della sua
finestra e fece in tempo a scorgere il parroco che, ultimo del
gruppo, infilava la porta della casupola.
Fu come se una voce di dentro le avesse detto “questo è il
momento”. Si preparò alla svelta e si avviò lesta verso la
chiesa ad aspettare il rientro del parroco.
Quando questi arrivò, in chiesa non c’era ormai nessun altro.
Gli andò incontro in punta di piedi e sollevò leggermente il
velo nero, che le copriva la fronte, per farsi riconoscere. Ma
il parroco l’aveva già scorta. “Mettete a posto tutto e andate
pure. Ci vedremo domani” disse il parroco rivolto al sacrestano
e al chierichetto.
Poi andò al centro della chiesa, fece un inchino verso l’altare,
si tolse la stola, la baciò e si diresse in sacrestia con un
lieve cenno del capo all’Adele perché lo seguisse.
Depose l’aspersorio su uno scaffale e, sedutosi su una panca
sotto la finestra, le disse: “Dovresti essere contenta per come
la Provvidenza ha fatto andare le cose. Siediti e dimmi per
quale motivo sei ora venuta da me”.
Adele appariva serena, non più dominata dalla tensione nervosa
di quella tal mattina. E tuttavia esitava a iniziare il
discorso, proprio perché nel suo animo, nonostante la
Provvidenza di cui parlava il parroco, tendeva a prevalere
l’istinto della superstizione, che la costringeva quasi a non
fissare una data ufficiale d’inizio alla sua contentezza. Temeva
che a partire da quel punto una mala occasione qualsiasi potesse
rimescolare le cose e farle ritornare come prima.
Ma la voce di dentro tornò a
farsi sentire e finalmente si aprì: “Sono venuta a ringraziare
voi e a far dire una messa alla Provvidenza che mi ha fatto
tanto contenta. Tanto contenta che ho perfino paura. Ma sono
venuta anche perché sono in debito con voi di un’altra cosa”.
“Con me? di un’altra cosa? e di che cosa? chiese il parroco
incuriosito.
“Vi devo spiegare, come vi avevo promesso, perché ho insistito
che il maestro Pertinace facesse da padrino a mio figlio”
rispose Adele.
E con queste ingenue parole, ritenendo cioè di svelare un
segreto che il parroco conosceva invece assai bene, fin da
quando fra le mura della sacrestia venne fatto il nome di
Pertinace, mise a nudo tutta l’innocenza e il candore del suo
animo, ai limiti quasi della dabbenaggine.
Il parroco conosceva talmente bene le idee di Pertinace, gli
entusiasmi tanto lodevoli quanto dispersivi di Pietro e le
angustie di sua moglie nella quotidiana impresa di sbarcare il
lunario, che non aveva fatto alcuna fatica a spiegarsi i veri
motivi che avevano indotto la donna a insistere proprio sul nome
del maestro.
Ma non volle umiliarne il moto d’animo; la incoraggiò anzi, con
un sorriso, a spiegargli questo benedetto perché.
Adele cominciò a parlare delle avvizzite finanze familiari, dei
figli, del cibo, del vestire, della scuola e di tutti gli altri
fardelli che appesantiscono il faticoso vivere di tutti i
giorni, fino a concludere che, senza il lavoro continuo,
indisturbato del marito, la situazione sarebbe precipitata. Da
qui a escogitare un espediente plausibile, seppure rischioso,
per il recupero del marito al lavoro, il passo fu breve, quasi
obbligato.
Per il parroco il discorso era scontato. Non la seguiva altro
che con l’espressione cattivante del viso e con qualche moto di
assenso del capo, cadenzato su intervalli piuttosto lunghi più
per organizzare i pensieri che gli passavano per la mente che
per approvare il monologo della donna.
Alla fine mostrò di esserle grato di questa sua premura e le
chiese a quale Santo desiderava che venisse detta la messa: “Non
è che io possa dire una messa alla Provvidenza. La Provvidenza è
un’entità astratta, un’idea di protezione e soccorso che
discende dall’alto come ricompensa di meriti e preghiere. Ma
viene dall’infinita bontà del Signore al quale è stata rivolta
una buona parola dal Santo che tu hai invocato. Hai capito ora?
E a questo Santo che devi farmi dire la messa”.
Così dicendo si alzò dalla panca seguito da Adele che bisbigliò:
“Alla Madonna delle Grazie. A lei rivolgo sempre le mie
preghiere”.
“Benissimo” fece il parroco “la dirò alla Madonna delle Grazie e
domenica, quando verrai a messa, ti preciserò il giorno”.
Si avviò quindi verso la porta e salutò Adele che, ricambiando
il saluto, gli mise in mano del denaro.
Se c’era invece uno veramente sulle spine, questi era il
parroco.
Ora voleva arrivare, come si usa dire in gergo militare, allo
sfruttamento del successo, che è la fase successiva allo
sfondamento delle linee nemiche e consiste nell’inseguire gli
avversari ormai in rotta, catturarli e occuparne le posizioni.
Il parroco s’era prefisso di riportare la pecorella Pertinace
all’ovile - che è uno dei compiti, fra i tanti, che ogni buon
prete mette in prima fila - e fu per questo motivo che a suo
tempo si dedicò attivamente all’opera di convincimento perché
quello facesse da padrino e al superamento di alcune riserve
oggettive, sollevate in alto loco, sull’opportunità della scelta
di quel nome che si sapeva, quanto meno, scomodo.
Ora però che il miracolo era avvenuto e Pertinace così
com-piutamente s’era calato nella parte, il che - dal punto di
vista del parroco - era da paragonarsi allo sfondamento della
linea di difesa, si convinse che bisognasse battere il ferro
intanto che era caldo.
Tuttavia era preso fra due fuochi. Da una parte era preoccupato
di non fare qualche passo falso, di non dire più del necessario,
insomma di improntare il taglio del discorso alla circospezione
per non compromettere la preziosa opportunità. Dall’altra,
temeva che questo muoversi vigile e ponderato potesse dimostrare
debolezza o impaccio, quando invece sarebbero state necessarie
determinazione e sicurezza.
Rimaneva, per di più, un ulteriore dubbio da risolvere. Era
meglio attendere l’occasione propizia, il che alla lunga poteva
risultare in contrasto con la teoria dello sfruttamento del
successo o non piuttosto rompere gli indugi e comunicare la data
di un incontro? E, in tal caso, in canonica o in casa di lui? o
dove altro?
Insomma ce n’era abbastanza perché il parroco fosse realmente
sulle spine.
Alla fine, quando stava per prendere corpo la soluzione più
ovvia, quella cioè rispondente ai doveri del pastore di anime e
quindi dell’iniziativa immediata, senza tergiversazioni e -
tutto sommato - aderente anche alla personalità di Pertinace,
sentì bussare al portoncino in modo violento e concitato. Una
voce femminile ripeteva con affanno misto a panico: “Signor
parroco, signor parroco, presto, fate presto, aprite!”.
Il parroco restò per qualche istante indeciso sul da fare,
finché non riconobbe, pure nella deformazione del timbro dovuta
all’agitazione, la voce di Adele. “Presto, presto” continuò la
voce.
Corse ad aprire e si trovò davanti un’Adele tutta diversa da
quella che pochi istanti prima s’era accomiatata da lui. Gli
occhi sbarrati, un pallore cadaverico e un tremito per tutta la
persona. “E terribile, spaventoso quello che c’è là fuori” disse
ormai senza voce, avanzando a fatica verso una sedia sulla quale
si abbandonò stremata.
“Ma ti vuoi decidere a dirmi cos’hai visto, cos’è successo?”
incalzò il parroco.
“Micone, signor parroco, hanno ucciso Micone a pochi passi dalla
chiesa” rispose Adele, ai limiti delle proprie forze.
“Micone?” urlò il parroco precipitandosi verso l’uscita.
Lo spettacolo che gli si offrì una ventina di passi dopo il
sagrato fu agghiacciante. Micone giaceva riverso sul ciglio
destro della stradetta che porta alla chiesa. Il capo scoperto,
piegato leggermente verso sinistra, lasciava intravvedere un
occhio sbarrato, di pietra, tra i fili d’erba verde.
La mano destra serrava ancora il bastone, la sinistra era
contratta come se avesse ingaggiato una lotta con lo spasimo
dell’ultimo istante di vita.
Le gambe divaricate, Luna sul ciglio della strada, l’altra nel
prato. Un pugnale era conficcato nella schiena all’altezza del
cuore, che ne era stato trapassato. Il cappello era rotolato più
avanti a circa tre metri dal capo.
“Non è possibile” furono le uniche parole che il parroco fu in
grado di pronunciare mentre si chinò a chiudere le palpebre del
morto. Poi si rialzò, tornò in chiesa e domandò all’Adele:
“Quando sei venuta hai fatto questa strada? hai visto qualcuno”.
“Sì, ho fatto questa strada ma non c’era nessuno. Saranno
passati, si e no, venti minuti da quando sono venuta qui a
quando sono uscita e tutto è successo in questo frattempo”
rispose quella, livida e tremante.
E il parroco: “Cerca un lenzuolo da quella parte e dammelo; poi
torna a casa dall’altra strada dietro la chiesa e avvisa tuo
marito che avverta il brigadiere e prepari alla svelta, se già
non ne ha, una cassa da morto” le disse indicando un armadio
nella canonica.
Prese anche la stola e, con il lenzuolo in mano, tornò verso il
morto, lo coprì, lo benedì e recitò una preghiera.
Quando giunse il brigadiere con un carabiniere dovette fare uso
di tutta la sua fermezza per impedire ai curiosi, arrivati nel
frattempo, di sollevare il lenzuolo per guardare il cadavere.
Alla fine, nel timore che qualche traccia di colpevolezza
potesse essere involontariamente distrutta o manomessa, venne
disposto che tutti sgombrassero la zona, anche per consentire di
effettuare i primi accertamenti e stendere il verbale
dell’accaduto.
Ultimata l’incombenza, il brigadiere lasciò di guardia un
ca-rabiniere e ritornò in caserma per mettersi in contatto con i
superiori e ricevere ordini.
Nel giro di qualche ora giunse in auto un magistrato che prese
nota dei minimi particolari, ricevette il verbale del
brigadiere, avviò le prime indagini e dispose l’autopsia sul
cadavere e l’esame del pugnale per rilevare eventuali impronte
lasciate dall’assassino.
Ordinò anche che venissero avvisati i familiari del morto, cosa
che si premurò di fare lo stesso brigadiere che possedeva il
recapito di ognuno di essi, e che dopo il funerale il maggiore
dei figli si presentasse nel suo ufficio per comunicazioni
urgenti.
Alla fine Micone venne adagiato nella cassa e portato nella sala
mortuaria del cimitero a disposizione dell’autorità giudiziaria.
Frattanto la notizia della tragica morte fece il giro del paese
gettando tutti nella più profonda costernazione. Ognuno si
chiedeva, senza trovare risposta plausibile - ammesso che possa
esistere risposta plausibile per un delitto - come fosse stato
possibile uccidere un uomo buono, innocuo, schivo e onesto come
Micone. E ognuno, in mancanza di qualsiasi verosimile movente,
fu indotto alle più strampalate ipotesi. Vi fu persino chi
azzardò, nella ridda delle congetture, che Micone potesse aver
avuto una doppia vita.
Ma chi subì un colpo tremendo oltre ogni dire fu Pertinace. Egli
considerava Micone un simbolo, un esempio delle capacità
dell’uomo di riscattarsi con le proprie forze, della formidabile
volontà di liberarsi di eredità nefaste per costruire un nuovo
modello di vita e dare un contenuto significativo alla presenza
propria e a quella della sua progenie.
Il rispetto per le opere e per le fatiche di quell’uomo era pari
all’ammirazione per la serietà e la caparbietà nel perseguirle.
Ora si arrovellava anch’egli, rinchiuso nell’ombra del suo
studio, a chiedersi chi mai avesse avuto interesse a sopprimere
una creatura tanto retta.
E non trovando indizi che potessero, neppure lontanamente, far
risalire ad una mano omicida del paese, non gli restò da pensare
- fino a persudersene - che a una vendetta di qualche superstite
del clan dei familiari per colui che, nel buio della loro mente,
consideravano un traditore.
Questa conclusione lo prostrò definitivamente e si mise a
ringhiare: “Cani sono, cani selvaggi. Gente che non dovrebbe far
parte del genere umano. Criminali pericolosi per la società, da
tenere rinchiusi fino al termine dei loro giorni. Barbari che
riemergono dalle ceneri del peggiore medioevo e vorrebbero
ributtarci indietro di secoli. Maledetti!”.
E seguitò così per un pezzo, al punto che il tono della voce da
cupo divenne cavernoso e profondo.
Mariascia, a cui mai era accaduto di vedere e sentire Pertinace
in quelle condizioni, volle tentare un approccio.
Aprì la porta nel massimo silenzio e, nella penombra della
stanza, vide Pertinace seduto in modo del tutto inconsueto. Il
corpo era piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, il capo
fra le mani e lo sguardo fisso sul pavimento.
Mariascia abbozzò un “Vi sentite ma...” che Pertinace troncò con
un urlo lugubre e rabbioso: “Vattene!”.
Dopo le esequie, il figlio maggiore di Micone si recò dal
magistrato il quale, fra le altre cose, pretese un elenco
dettagliato di tutti i beni mobili e immobili figuranti a nome
del defunto, nonché di eventuali disponibilità in denaro presso
le banche e la Posta.
Desiderava evidentemente battere tutte le piste utili ad
assicurare l’assassinio alla giustizia, e quella della rapina
non poteva essere scartata, checché ne pensasse Pertinace.
Lorenzo Milanesi -
Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
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