La cresima
Il
giorno prima che arrivasse il vescovo, il parroco volle a tutti
i costi provare il cerimoniale dell’indomani dall’a alla zeta, a
scanso di sorprese che avrebbero potuto incrinare la sua
reputazione di zelante organizzatore e procurargli qualche
biasimo. Così, fin dal mattino, le campane suonarono a distesa e
la banda intonò le musiche di circostanza.
Fu quanto mai opportuno perché qualche passaggio e qualche
entrata, come si dice in gergo, non erano ancora calibrati a
dovere. Il coro degli angioletti e delle giovani levò altissimi
inni religiosi, i cresimandi e i confratelli sfilarono lungo la
strada, ma senza i paramenti. Alla sera furono accese le
luminarie.
Nell’insieme la prova generale soddisfece il parroco, anche se,
come tutte le prove, ebbe un che di scialbo, mancando della
corale festosità della gente, dell’abbigliamento ufficiale dei
partecipanti e di molti altri dettagli che, messi insieme,
coloriscono e danno anima alle cerimonie ufficiali.
Un risultato comunque lo ottenne egualmente e fu l’acuirsi
dell’ansia generale per l’indomani.
Il mattino dopo, alle prime luci dell’alba, fu tutto un
brulicare di gente intorno alle prime case del paese che
fiancheggiavano la strada dalla parte donde sarebbe arrivato il
vescovo.
Erano le famiglie dei cresimandi provenienti dai paesi vicini.
Vi giunsero con i mezzi più disparati, chi con carri trainati da
buoi, chi con calessi, chi con carrozze e ve ne fu una che prese
in affitto perfino un’automobile, turbando, con sentimenti di
invidia nel momento meno opportuno, l’anima semplice di quanti
ebbero occasione di vederla.
Vi furono famiglie che giunsero con il cresimando già costretto
nell’abitino della cerimonia, e Dio solo sa quante furono le
raccomandazioni e gli ammonimenti perché non lo sciupasse, e
altre invece che, issando lenzuola a mo’ di paravento fra una
ruota e l’altra dei carri, procedettero alla vestizione sul
posto, proprio per presentare i loro bambini con l’abito
impeccabile.
Dall’allegria o dalla sonnolenza di questi bambini si poteva
arguire se il luogo di provenienza fosse vicino o lontano.
I cresimandi del paese dormivano ancora quando il maestro dei
fuochi, su suggerimento de^parroco, fece esplodere alle sette
precise un colpo secco, cupo, potente che svegliò tutti, rese
allegro anche chi fin da quell’ora era già stanco e diede avvio
ufficiale alla cerimonia.
L’animazione più viva fu in casa di Pietro dove i motivi
reconditi dell’uno e dell’altra si intrecciarono con quello
palese, accrescendosi fino alla concitazione. Pertinace, al
contrario, attese il momento senza apparente nervosismo.
L’unica volta che si abbandonò ad una esclamazione con tono di
voce più alto del solito fu quando, volendo controllare che
l’abbigliamento fosse a portata di mano, non rintracciò per
tutta la casa il cappello Borsalino grigio delle grandi
occasioni. Ma tutto rientrò nella calma quando, da un baule
destinato a cose vecchie, Mariascia trionfante trasse il
cappello impolverato ma sempre sobrio e classico col suo largo
nastro amaranto cupo. Lo spazzolò lesta ed esso tornò
elegantissimo.
II ritrovo era fissato per le nove e mezza, ma alle nove il
parroco ordinò qualche rintocco di campana per dare tempo agli
improbabili ritardatari di affrettarsi e ai cresimandi di
predisporsi nella navata principale in file ordinate, i maschi
da una parte e le femmine dall’altra, con i rispettivi padrini
alle spalle e le famiglie più indietro.
Alle dieci tutto fu pronto e il vescovo non si fece attendere.
Il parroco ne fu informato dal sacrestano che scrutava
l’orizzonte dall’alto del campanile fin da un’ora prima. Fece
suonare le campane, questa volta a distesa, e di lì a poco
un’austera au-tomobile, con le tendine abbassate - forse
un’Isotta Fraschini - scivolò silenziosa lungo la strada
principale fra gli applausi e si arrestò sul sagrato della
chiesa.
Il conducente si precipitò ad aprire lo sportello posteriore
destro donde uscì il vescovo in abito - se si può dire - da
viaggio, subito ossequiato dal parroco che gli diede il
benvenuto, e dalle autorità presenti che si genuflessero e gli
baciarono l’anello pastorale. Poi il vescovo si voltò verso i
numerosi presenti che applaudivano ai bordi del sagrato e, prima
li salutò agitando entrambe le braccia, poi li benedisse tre
volte cominciando da sinistra.
Varcò quindi il portone, addobbato di drappi cremisi,
accompagnato dal parroco a debita distanza e, dopo un inchino
all’altare, si diresse in sacrestia dove il suo segretario aveva
già predisposto i paramenti per la cerimonia.
Pertinace, dal suo posto, ebbe modo di osservare il vescovo fin
dal momento in cui scese dall’automobile. Era un uomo sulla
cinquantina avanzata, di statura leggermente al di sopra della
media, asciutto, i capelli brizzolati, gli occhi chiarissimi che
ri-cordavano il ghiaccio, le mani con dita lunghe e sottili,
l’incedere lento e controllato su scarpe nere, con larga fibbia
argentata, che lasciavano intravvedere le calze di colore
analogo allo zucchetto. Il sorriso pressoché impercettibile, che
vagava dalle labbra alle gote rosate, non riusciva a giungere
fino allo sguardo, che restava severo, quasi gelido dal colore
degli occhi. Nell’insieme la figura corrispondeva all’idea che
s’era fatta di un vescovo.
Poco dopo una campanella davanti all’entrata della sacrestia
annunciò l’ingresso del vescovo seguito dal suo segretario, anch’egli
sacerdote, e dal parroco. Apparvero, uno alla volta, coi
paramenti e nell’alta navata cessò di colpo il brusio mentre
dall’organo si diffusero le prime note di accompagnamento del
coro. Dei tre, il vescovo indossava i paramenti più ricchi. La
mitra in capo lo rendeva più severo e solenne.
La banda si era portata sul sagrato schierandosi a semicerchio
davanti al portone centrale e sottolineava con piccoli brani
musicali i momenti più importanti della cerimonia, sovrastando
talvolta il suono delle campane.
Filò tutto liscio fra l’emozione dei cresimandi e le lacrime dei
genitori e di non pochi padrini e madrine.
L’omelia del vescovo, che, insieme alle modalità di svolgimento
della cerimonia e al comportamento dei presenti, tenne
desta la curiosità di Pertinace, fu pari alla prima impressione
che quello aveva dato di sé. Asciutta, semplice, alla portata
dei bambini ai quali prevalentemente fu rivolta, eppure pregna
di significati, talvolta persino toccante. Pertinace ne rimase
colpito perché riconobbe che di fronte a un uditorio composto di
persone semplici e di ragazzi alle soglie dell’adolescenza, il
vescovo seppe trovare le parole giuste, senza eccedere nella
dottrina, conferendo nondimeno al discorso un taglio elevato nei
contenuti, ma piano e accessibile nella forma.
Il primo atto della cerimonia si chiuse sotto i migliori
auspici. Il resto, fuori della chiesa, fu un festeggiamento
ininterrotto fino a sera quando tutti, stanchi ma ancora con
qualche briciola di ansia, aspettavano, dopo il concerto della
banda, i fuochi d’artificio.
Pertinace si accompagnò per tutta la giornata con la famiglia di
Pietro e assaporò, come da lunghissimo tempo ormai non gli
accadeva, il piacere di essere e di sentirsi uno dei tanti del
paese e del circondario che, almeno per un giorno, abbandonavano
lavoro e affanni per fraternizzare e gioire in una festa
dedicata solamente ai bambini.
Nell’intervallo del concerto, appena vide che il più piccolo dei
figli di Pietro dava segni di sonnolenza e giudicò che Mariascia
avesse preparato tutto in base ai suoi ordini, si avvicinò a
Pietro e gli sussurrò: “Continuate con tua moglie a godervi
questa serata che non capita tutti i giorni. Io porto via i tuoi
figli che pranzeranno a casa mia. I fuochi glieli faccio vedere
dal giardino. Passa a prenderli alla fine”.
“Aspettate, aspettate un momento” rispose Pietro, che migliore
occasione di questa non poteva attendersi per fare quello che
aveva in testa da un pezzo. “Fra cinque minuti vi aspetto
davanti al vostro portone” concluse e si dileguò facendosi largo
fra la folla.
Pertinace lasciò passare il tempo necessario, salutò la moglie
di Pietro, che rimase ad aspettare il marito chiacchierando con
altre donne del posto, e si avviò verso casa coi tre bambini, il
più piccolo dei quali ora - con la novità del pranzo fuori casa
- era più vispo degli altri.
Davanti al portone Pietro attendeva l’arrivo dei quattro e
respirava ancora con affanno per la corsa fatta e per lo sforzo
compiuto nel portare lì un mobiletto a triangolo con un’antina
ornata da un pomello di ottone lucido raffigurante la testa di
un leone, di quelli che i falegnami chiamano angolari.
Egli si pose davanti al mobiletto, in posizione tale che
Pertinace, distratto dai bambini e intento a cercare le chiavi
di casa nel vicolo poco illuminato, non riuscisse a vederlo.
Quando Pertinace infilò la chiave nella toppa, la porta si aprì
manovrata dall’interno da Mariascia. “Entrate” disse questa
fermandosi dietro l’altra metà del portone rimasta chiusa.
Pertinace si infilò per primo, seguito dai bambini, e si diresse
nella stanza da pranzo in fondo al corridoio. Poi si avanzò
verso l’entrata un mobiletto - sostenuto a mezz’aria - che
sembrava camminare con le gambe di Pietro. Non passò dal
portone, sicché Mariascia ne dovette aprire l’altra metà.
Varcato l’ingresso, Pietro depose il mobiletto nel corridoio, vi
poggiò la mano sopra e rivolto a Mariascia disse: “Questo è per
voi” e sparì nel vicolo, verso la moglie. Mariascia non ebbe il
tempo di riaversi dalla sorpresa. Richiuse il portone, trascinò
il mobiletto nella sua camera, accostò la porta e gli si sedette
vicino. Aprì Fantina col pomello di ottone lucido, la richiuse e
lo accarezzò con la mano. Un groppo le serrò la gola. Mai
nessuno le aveva fatto un regalo.
Per parte sua, Pertinace visse quella serata con i ragazzi in
una dimensione tutta particolare, straordinaria. Affiorarono nel
suo animo sentimenti, a lui sconosciuti, di tenerezza, di
affetto, forse di paternità mancata, e vi si abbandonò felice
fino a sorprendersi seduto per terra a giocare insieme ai
piccoli con le barchette di carta.
Felicissima oltre ogni dire, Mariascia partecipò come una madre.
Il pranzo, che aveva preparato fin da prima per dovere di
governante, si trasformò con pochi ritocchi - candeline,
mazzettini di fiori e aggiunte qua e là - in una piccola
girandola di portate gustose e festose, fino ai dolci. E quando
Pietro, sul tardi, venne a riprendersi i figlioli, ella andò ad
aprirgli e lo invitò inutilmente ad entrare. Gli portò allora i
ragazzi e gli mise in mano un pacchettino di carta colorata
contenente due fette di torta fatta in casa da lei, una per lui
e l’altra per la moglie.
Aspettò infine che scomparisse nel vicolo e richiuse la porta
senza sbatterla.
Le giornate riacquistarono in breve il ritmo di sempre; tutto
ritornò alla normalità, che era poi il solito tran tran. Le
scuole si riaprirono, si alternarono le visite a Micone da parte
dei figli e delle nuore e dei nipoti, iniziò la vendemmia e le
foglie degli alberi cominciarono ad ingiallire preannunciando
l’autunno.
Il parroco rientrò da una breve vacanza dopo le ansie e le
fatiche della cresima, le rondini diradarono e riapparvero, con
gli abiti volgarizzati dell’ultima moda, le due maestrine che
venivano in paese ad insegnare da supplenti.
Pertinace aspettò il mosto buono della contrada di Terramala e
se ne fece riempire la botte restaurata, sistemata in un angolo
della cantina più arieggiato del precedente.
Era fiducioso ora di bere vino che si chiamasse vino. Di tanto
in tanto, nei giorni di festa, esattamente come la moglie di
Pietro aveva programmato che avvenisse, egli si recava in visita
alla famiglia del figlioccio o, più di rado, sollecitava la
venuta del ragazzo a casa propria. Lo vedeva crescere, questo
suo figlioccio, molto bene impostato, in regola con gli studi,
educato, vispo, per nulla attaccato alle gonne della madre, alla
quale peraltro voleva un bene dell’anima. Divideva il suo tempo
libero fra i giochi, nei quali eccelleva, e la bottega del padre
per assistere al suo lavoro quando prendeva le misure delle
tavole, le piallava, ne praticava tacche e fori, ne lucidava le
parti finite.
Pertinace era soddisfatto e ne attribuiva il merito alla pasta
buona e alle capacità dei genitori. Sapeva però, e in cuor suo
ne gioiva, che questa curiosità per il lavoro paterno era nata
nel ragazzo dopo la frequentazione della sua casa, dopo le
chiacchierate sull’importanza degli artigiani, sull’abilità e la
bravura del padre.
Lorenzo Milanesi -
Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
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