Un capo di tanti anni fa

 

Per comprendere com’era il mondo del lavoro tanti anni fa, occorre per una volta iniziare il racconto alla rovescia. Ero da pochi mesi a Milano e da ancora meno nel prestigioso ufficio di una banca. Il clima era di quelli  formali, a partire dal “lei” col quale si doveva parlare alle gentili colleghe in grembiule scuro e collettino bianco, per proseguire poi col rigoroso rispetto di tutti i gradi gerarchici superiori. Nei corridoi del palazzone di Piazza Scala occorreva camminare svelti e senza dare troppe confidenze agli altri dipendenti. Un caffè a mezza mattinata nell’androne appariva quasi un’attività carbonara. Nell’ampia sala ov’ero alloggiato incombeva la presenza ideale dell’avvocato dirigente. L’avevo incontrato al mio esordio e mi ero sentito scrutato a fondo dagli occhietti indagatori dietro gli  occhiali un po’ tondi e spessi.  La stanza incuteva un timore reverenziale: una porta finestra affacciava su un cavedio con poca luce. Per rischiarare l’avvocato prediligeva un’abatjour che illuminava solo il ripiano della scrivania monumentale, lasciando il resto dell’ambiente in una sostanziale penombra. Il tono dell’accoglienza  fu spicciativo, come si conveniva a un capo che era tenuto a chiarire all’allievo le regole del gioco. Però, dietro quella montatura nera e un po’ antiquata  sembrava guizzare un sorriso trattenuto, che forse col tempo si sarebbe potuto liberare. Non me la fai, pensai dentro di me. Reciti la parte del burbero, ma sotto sotto ti stai divertendo. Pochi i convenevoli;  viene convocato con un mezzo ruggito un collaboratore, addirittura più giovane di me, al quale si impartiscono le istruzioni per l’uso.  C’è un nuovo arrivo, spiegagli bene tu come funziona  quest’ufficio. Mi trovo così di fronte un tipetto dalla erre arrotata che, senza a né ba, mi trascina fuori dallo studio e mi fa sedere dinanzi a una trionfale Olivetti. Sai scrivere a macchina? Eh, perbacco, sono praticissimo! Cià, batti quanto ti dètto. Non proferisce quasi verbo che i tasti crepitano come una mitragliatrice. C’è qualche errore, ma che fa: cancelliamo la lettera sbagliata con una bella ics e procediamo. Con stupore il furetto mi blocca con aria disgustata, sfila il modulo dal rullo e strappa la carta sotto i miei occhi allibiti. Caro amico, all’Ufficio Contenzioso le ribattiture non sono ammesse neanche sulle lettere per la serva. Prenditi il tempo che vuoi, ma qui dev’essere tutto perfetto. Ahi, dove sono capitato, mi domando smarrito,  si mette subito male. Ancora peggio dopo qualche settimana: mentre  annaspo  nelle novità quotidiane e nemmeno ho capito bene dove mi trovo, il Dirigente mi chiama con la voce roca che filtra dalla porta a vetri. Entro agitatissimo, chissà cosa vorrà mai. Nel pomeriggio c’è un’importante riunione esterna per un certo fascicolo. Andrai  tu all’incontro. Cavoli, avvocato, guardi  che si sbaglia. La posizione non è mia e non conosco nulla sull’argomento.  Appunto, ribatte l’avvocato, ci vai proprio tu perché puoi solo ascoltare e non dovrai aprire bocca; se ti fanno qualche domanda ti riservi e al ritorno mi riferisci quello che hai sentito. Con aria abbacchiata mi riavvio al mio posto: l’amor proprio è calato di parecchi punti. Fare la parte dell’uditore non mi lusinga; allora che ho studiato a fare? Sono pure procuratore legale, stare zitto non mi piace. Poi però  devo constatare che la cosa funziona veramente: durante la riunione, tra tanti sussiegosi soloni, il mio silenzio appare quasi la manifestazione di una volpina astuzia. Comprendo finalmente le tecniche del capo. Riservatezza e sobrietà, il motto concretamente praticato sin nei piccoli particolari. Però poi pensavo pure:  è bravo come professionista, c’è da apprendere da lui, ma quel suo senso del dovere è così assorbente e sul piano umano sembra tanto distaccato! Dopo questo incipit, andiamo alla fine, per riavvolgere il nastro dei ricordi  e tirare le conclusioni. Tra quei  titic e titoc primi novecento arrivano le gelide giornate dicembrine. Il clima della Padania non era proprio quello d’o’ paese d’o sole. Una certa alba mi risveglio fortemente costipato. Misuro la febbre: 39 gradi. Nella pensione che mi ospita, c’è solo un telefono a gettoni. Devo comunicare, per la prima volta e con un certo timore,  che non potrò presentarmi al lavoro. Va buò, resta dove sei e riguardati. Intanto, gli altri coinquilini sono usciti, nella casa deserta non c’è rimasta che la fantesca che vedrò più avanti, quando spietatamente verrà a rifarmi il letto con le finestre spalancate sulla nebbiolina meneghina. Non ho radio, non c’è TV, sono senza giornale e ho finito le sigarette. Alle 13 un salutare digiuno spezza metaforicamente la mia giornata sotto le coltri. Nel silenzio innaturale le ore non passano mai; il libro che mi teneva compagnia è finito da un pezzo. Ma - miracolo - attorno alle 17 risuona il campanello. La sciura ciabatta sui feltrini e apre: sento parlottare e poi la medesima  fa capolino da me. Dottore, c’è un certo Nestore per lei. Diamine, è un collega, cosa vorrà mai? Avranno creduto alla mia malattia? Preoccupato, infilo la vestaglia sul pigiamone di flanella  e faccio accomodare. “Ahò (Nestore è romano), il capo mi ha detto che il ragazzo, che saresti tu, non ha nessuno che possa pensare a lui e nemmeno un brodino gli prepareranno dove abita. Mi ha dato di tasca sua i soldi, ordinando di comprarti quello che ti può servire per la sopravvivenza immediata”. Dai bustoni spunta di tutto: pane, prosciutto e formaggio, un cartone di latte, biscotti, frutta e cioccolata.  Non so come ringraziare; per l’attenzione dimostratami sono già guarito. Sfebbrato, mi presento perciò all’appello il mattino dopo e, dopo una breve anticamera, sono ammesso nel sancta sanctorum. Avvocato, Lei ha pensato a me; è stato come un padre e non trovo le parole per dirle la mia gratitudine.  Il  capo solleva appena la testa, mi guarda in tralice e poi mi dice: “Guaglio’, ma che pensavi, qui ognuno deve fare severamente il suo dovere, ma poi ci aiutiamo tutti. Mentre mi dicevi di essere ammalato, mi sono ricordato di quando dal paese mi accompagnavano al collegio a Napoli.  Era l’inizio dell’autunno, facevo appena le scuole medie, sarei mancato dal mio Molise per ben nove mesi.  Appena usciti dalla stazione,  per consolarmi mi compravano due belle sfogliatelle. E mentre ne tenevo una per mano, le lacrime che scendevano spontaneamente inzuppavano la crema delle ricce, ancora calde. Tu stai solo e questo pensiero mi ha fatto peccato. L’ufficio  è come una famiglia e finché starai  a Milano,  questa sarà pure la tua famiglia”. Definitivamente spiazzato, farfugliai qualcosa e girai i tacchi per non far trasparire la commozione del momento. Il mio capo di quella volta era l’avvocato Antonio Massa. Non solo un maestro, ma soprattutto un uomo che mi fece crescere e dal quale ebbi il privilegio di imparare a vivere.

 

Enzo Barone (Salerno)

 

 

 

 

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