UN NATALE DI 69 ANNI FA

 

Eravamo nel mezzo di un terribile inverno. Dicembre 1944 in un paese della Val Trebbia occupato da una ventina di giorni dalle truppe della divisione tedesca “Turchestan”, composta da ex soldati dell’Armata Rossa reclutati nei campi di prigionia, comandati da ufficiali e sottufficiali tedeschi. Queste truppe, affiancate da alcune formazioni della Repubblica di Salò, erano reduci da un grande rastrellamento antipartigiano sulle nostre montagne riuscendo a terrorizzare le popolazioni con uccisioni, incendi di cascine, case e addirittura di interi paesi di montagna.

Quell’inverno fu particolarmente rigido e abbondante in nevicate anche in pianura.

La mia famiglia era sfollata a Rivergaro, un paese ai piedi degli Appennini, base di partenza e logistica delle puntate verso la montagna. Le truppe erano state disperse nelle case del paese e anche da noi alcune stanze erano state requisite per alloggiare due soldati e un capitano. Quest’ultimo era un prussiano di grossa corporatura e un convinto nazista, particolarmente iroso quando parlava dei partigiani e in genere dell’Italia. Uno dei due soldati era turchestano, una specie di selvaggio, del tutto analfabeta, mentre l’altro era ucraino, più civile e disposto a scambiare qualche parola con noi, sia pure con fare circospetto.

Mia madre si prendeva cura di noi tre ragazzini, io e due sorelle più giovani, con enormi difficoltà per quanto riguardava il vitto, con salti mortali per procurare qualcosa ogni giorno, dato che dalla città non arrivava quasi nulla della “roba della tessera” Riusciva spesso a “rubare” pagnotte dai carri militari o a ritagliare qualche fetta di carne da un piccolo magazzino che i tedeschi tenevano nel nostro cortile-

Mio padre era partito un mese prima, all’inizio del rastrellamento, dopo avermi lasciato in un paese di montagna, ultimo baluardo delle brigate partigiane, incalzate dalle truppe nazifasciste avanzanti. Da lì ero riuscito a ritornare a casa, dopo qualche avventura e una camminata notturna nei boschi e fra i monti.

Mia madre, molto religiosa, non volle mancare alla messa delle 11 il giorno di Natale, mentre quella della mezzanotte della Vigilia non fu celebrata a causa del coprifuoco imposto dagli occupanti. Ricordo che in chiesa erano presenti anche alcuni soldati tedeschi e qualche “mongolo” (così erano chiamati tutti i soldati sovietici), forse di religione cristiano-ortodossa. Molti erano musulmani, come uno dei due che abitavano da noi. Il nostro capitano non lo vedemmo.

Mia madre riuscì a rimediare un magro pranzo di Natale, con gnocchi di patate fatti in casa, un arrosto di manzo rubato ai tedeschi, una “pattona” (castagnaccio) e una bella scodella di panna montata, con la panna fresca comprata a caro prezzo presso i fittavoli degli zii. La assaggiarono anche i due soldati che la definirono “burro maiala” pensando che fosse fatta con lo strutto.

Fuori nevicava fitto e noi ci stringemmo intorno alla stufa a legna che scaldava solo una stanza al piano terreno. Nelle camere da letto non c’era riscaldamento e il mattino l’acqua della brocca era diventata ghiaccio.

La neve, in quel Natale, non cessava di scendere fitta e le nevicate durarono fino a metà febbraio. Pensavamo sempre ai partigiani, dispersi e braccati, nascosti nei luoghi più reconditi delle montagne, con quella neve e con quel freddo. Pensavamo a mio padre, di cui non sapevamo nulla. Chissà dov’era. Chissà se era ancora vivo. Di lui ci giunsero notizie solo a metà marzo, ma i “mongoli” erano già partiti, forse a rinforzare la Linea Gotica.

Quel Natale fu il più difficile e triste della mia vita.
 

Giacomo Morandi - Rivergaro

 

 

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Amici Comit News - Natale 2013