UN NATALE DIVERSO
di Giacomo Morandi (Rivergaro)
Quell'anno,
molto tempo fa, da New York dove io lavoravo, decidemmo
di non venire in Italia per le ferie di Natale e
Capodanno. La moglie di un collega che possedeva
un'agenzia di viaggio ci organizzò un soggiorno di una
decina di giorni in Florida, destinazione invernale
classica di molti americani degli stati del nord che
desiderano fuggire per qualche giorno dalla neve e dal
freddo che a fine dicembre mordono inesorabilmente.
Poco più di due ore di aereo ci separavano da Tampa,
città della costa occidentale della Florida, sul Golfo
del Messico. Avevo prenotato una macchina all'aeroporto
d'arrivo, e la ritirai quando già calava la sera, anche
a causa di un consistente ritardo del volo. Avevo
raccomandato all'agente di viaggio di prenotarmi una
macchina medio/piccola, anche se, con le mie tre
bambine, eravamo in cinque, ma mi ritrovai a guidare un
macchinone di oltre sei metri, 6 litri di cilindrata,
cambio automatico a tre marce, bagagliaio che forse
sarebbe servito anche da camera da letto.
Ci avviammo sulla "expressway" in direzione sud
rispettando, ovviamente, il limite di velocità di 55
miglia (meno di 90 chilometri) all'ora, con traffico
quasi inesistente. A quella velocità, su quel mostro
silenzioso a quattro ruote e su quelle strade, , si
tende ad annoiarsi e a distrarsi un po' se non ad
addormentarsi. Le mie donne, infatti, sonnecchiavano.
Tanto, non c'era nulla da vedere.
Dopo un'ora e mezza abbondante cominciai a preoccuparmi
perchè sapevo che ad un certo punto avrei dovuto
abbandonare l'autostrada e dirigermi verso il mare alla
mia destra e verso la mia destinazione, su un'isola
collegata alla terraferma da tre ponti.
Fu una delle mie figlie, che evidentemente teneva un
occhio aperto, ad avvisarmi che forse avevo già superato
la mia uscita. Infatti, avevo visto un cartello con
scritto "Estero" ma, stupidamente, avevo pensato che si
trattasse di una strada per il Messico. La mia isola,
invece, si chiamava proprio "Estéro Island".
Eravamo ormai in piena oscurità e sulla strada non c'era
anima viva, neppure una macchina.
Ormai avevamo un po' fame. Sull'aereo ci avevano
propinato soltanto un tramezzino striminzito e
un'arancia, oltre alla solita bustina di arachidi dei
voli domestici, masu quella strada non c'era traccia
alcuna di un ristorante o di un bar.
Finalmente vidi una luce in fondo a un rettilineo. Era
solo un baracchino dove un vecchietto preparava soltanto
gli "hot dogs", panini oblunghi con all'interno un
wurstel cosparso di mostarda (senape) che divorammo in
quattro e quattr'otto, accompagnati da un bicchierone di
Pepsi. Il simpatico gestore del baracchino, per
compiacerci, aveva abbondato nella mostarda.
Finalmente, passato il ponte, ci trovammo sulla strada
giusta che costeggiava il mare e arrivammo al nostro
condominio. Un omino un po' male in arnese ma con una
specie di divisa e uno strano cappello a cilindro che
forse voleva imitare le divise dei portieri degli
alberghi di lusso di New York ci accolse festoso. A mio
giudizio poteva avere novant'anni. Ci indicò il
parcheggio per la macchina e ci accompagnò al nostro
appartamento che ci apparse subito confortevole. Un
largo soggiorno con cucinino bene attrezzato, due camere
da letto, il bagno e un bel terrazzo sul mare che
s'indovinava davanti ma con quel buio non si vedeva. Sul
banco della cucina il vecchietto ci indicò un cesto di
frutta omaggio della proprietà, banane, arance, un
ananas, mango e, naturalmente, noccioline.
In quel silenzio dormimmo saporitamente, dopo la cena a
base di frutta e la digestione televisiva a base di
pubblicità.
In un angolo del soggiorno un vaso di coccio conteneva
una bella palma rivestita di lampadine colorate che
comprendemmo essere l'albero di Natale, adatto a quella
latitudine.
Il mattino successivo scoprimmo subito il bel terrazzo
che fronteggiava il mare del Golfo del Messico e la
bella spiaggia di sabbia bianca, quasi completamente
deserta.
Ancora frutta a colazione e una tazzona di improbabile
caffè americano, ma urgeva lo shopping per le provviste
perchè per tutto il periodo dovevamo arrangiarci a
cucinare in casa.Il vecchietto ci informò della presenza
di un grosso supermercato a un paio di chilometri di
distanza. Non era pratico cucinare il tradizionale
tacchino e ci decidemmo a comprarne uno di piccole
dimensioni ma affumicato, molta frutta, alcune grosse
bistecche e altre provviste che
sarebbero state sufficienti per alcuni giorni. Per la
cena della vigilia mia moglie pretese che si mangiasse
di magro e comprammo
quindi un bel dentice (red snapper in inglese).
La mattina di Natale mia moglie non voleva perdere la
tradizionale messa, ma scoprii che la chiesa cattolica
più vicina era a trenta chilometri, oltre il ponte e si
accontentò di una chiesetta anglicana, dove la cerimonia
risultò quasi identica a quelle alle quali eravamo
abituati. Il prete era vestito allo stesso modo, con la
tonaca nera, fece il suo bravo sermone e la gente cantò
quasi per tutto il tempo, senza le stonature che si
sentono nelle nostre chiese da parte delle buone beghine
nostrane.
Il tempo trascorse veloce, fra spiaggia, pediluvi nel
mare (l'acqua era piuttosto fredda), lo spettacolo del
sole che tramontava lentamente nel golfo, foto dei
pellicani che si tuffavano nell'acqua e ne uscivano con
un pesce nel lungo becco che dopo un paio di secondi era
già nel loro stomaco.
La sera dell'ultimo giorno dell'anno tutti gli ospiti
del condominio si riunirono nel cortile/giardino per
assistere ad una sfilata di moda molto comica perchè le
indossatrici forse provenivano da una vicina casa di
riposo ma conoscevano stranamente il mestiere e si
destreggiavano abbastanza bene per la promozione dei
loro modelli che furono in gran parte venduti alle
grasse americane in vacanza. Il brindisi lo si fece con
lo spumante californiano che tutti definivano "Sciampeigne".
I "donuts", le classiche ciambelle americane, offerti
dalla proprietà, sostituirono il panettone.
Ritornammo a Tampa e poi in volo a New York il giorno
dell'Epifania
Giacomo Morandi (Rivergaro) |