Vigilia di Natale, vigilia di rivoluzione…
di Vincenzo Barone (Salerno)

Il 1968 si avviava alla fine
e - sull’onda delle emozioni del “maggio francese” -
quel Natale non sembrava riproporre per i più giovani i
consueti rituali: invece delle nenie per il Bambino
Sacro, credevamo veramente che a mezzanotte si sarebbero
sentiti i rintocchi delle campane della rivoluzione.
Sulle caratteristiche che avrebbe assunto l’ineluttabile
rivolgimento sociale, i sentimenti, specie in provincia,
si rivelavano tuttavia contraddittori. Cominciava a
profilarsi la divaricazione tra (sedicenti) riformisti e
(pseudo) rivoluzionari che aveva caratterizzato pure le
generazioni precedenti. Ma, allo spirare di quel
dicembre, le aspettative per taluni assunsero tratti
quasi esoterici, ai confini del grottesco. Chi scrive,
oscillava tra euforie indebite e depressioni
situazionali. Era cominciata una gara a chi andava più
oltre. Sennò che sessantotto sarebbe stato? Da qualche
mese avevamo conosciuto per interposta persona un certo
figlio di un illustre cattedratico partenopeo, seguace
della IV Internazionale che s’ispirava al profeta
Trotsky. L’oracolo di quel particolare soggetto era un
argentino di nome Posadas, un tipo che, oltre a
propugnare il marxismo più ortodosso, non indietreggiava
dall’elaborare tesi sui dischi volanti e su altri
aspetti della scienza e dell’energia cosmica. Se Trotsky
aveva avuto una visione settaria, l’epigono si sforzava
di superare ogni limite riconosciuto. Muovendo da
immaginifiche premesse, ne discendevano corollari
improbabili, per esempio sull’atomica che avrebbe
distrutto metà dell’umanità, ma non avrebbe bloccato il
comunismo. La catastrofe nucleare era vista anzi
come male necessario perchè l’olocausto “non
distruggerà il livello di coscienza raggiunto dal
proletariato... L'umanità supererà la guerra con il
socialismo…” per passare dall'organizzazione tribale
e abbattere il sistema. Difatti, “dopo che la
distruzione comincerà, le masse insorgeranno in tutti i
paesi, in poco tempo, in alcune ore.” Bisognava
allora prepararsi e il misterioso collega napoletano
ostentava una quasi semiclandestinità, adombrando tesi
complottarde dei governi autoritari. Ovvio che pure
l’Italia rientrava nel novero degli stati reazionari e
bisognava muoversi con circospezione. L’excursus,
abbastanza noioso, si è reso necessario per inquadrare
una vicenda personale, in fin dei conti minimale ma
divertente. Dunque, iniziarono ad arrivare a casa
lettere scritte su carta velina con corsivo IBM (ahi!)
di colore rosso. Le missive chiudevano con la formula:
“un fraterno abbraccio rivoluzionario”. Cominciai a
mettere il tutto in un cantuccio riposto della
scrivania, in una cartella con un nome depistante,
perché non si sa mai. Poi, venne il momento
dell’incontro diretto. Vediamoci la vigilia di Natale, a
Napoli, alle ore 18, sotto l’orologio di fronte
all’edicola della stazione centrale. Discussioni in
famiglia a non finire: ma come, manchi proprio a
quell’ora, ah questi figlioli che non rispettano le
tradizioni. Non potevo dire: mamma, la rivoluzione non
può attendere e ci scappa di andare. Perciò, mi avviai
col treno assieme a un collega benestante, convertito
come tanti all’idea della palingenesi imminente.
Arrivati alla meta, si presenta un arruffato ragazzotto
che si qualifica e ci invita a seguirlo da lontano e
senza dare nell’occhio, perché potevamo essere
controllati dai servizi segreti Gli andammo dietro con
passo felpato e con un certo imbarazzo, perplessi ma non
ancora del tutto scettici. A un tavolino appartato del
bar ordinammo tre bianchini e raccogliemmo sottovoce
confidenze del tipo “per valutare il declino russo, devi
collegarti con Radio Tirana” (in effetti, provai in
seguito a sintonizzarmi. Nella mia città, nonostante
qualche crepitio, si sentiva, eccome). Al Cairo - ci
disse poi - non si ascoltava la voce dei compagni cinesi
che stavano smascherando i sovietici, lacché
dell’imperialismo americano? E gli indios quechua delle
vette andine, pur analfabeti, non seguivano con
devozione le parole d’ordine di Posadas e non era questo
il segno della grande maturità dei popoli, pronti a
spezzare le catene dell’oppressione? Con la mano protesa
faceva un gesto deciso, quasi a tagliare l’aria e dare
forza visiva al concetto. M’impressionò quel movimento,
era proprio uno di quei tic che avrebbe appassionato
qualche aspirante psichiatra. Con un colpo di teatro,
formulò infine un invito per un’imminente manifestazione
a Barra, quartiere operaio per eccellenza. Segnalò,
anzi, che sarebbe stato bene se avessimo preso la parola
dal palco, per testimoniare l’esistenza di cellule
posadiste in un’altra città. Mentre studiavamo una
risposta diplomatica per defilarci, l’esagitato ideologo
ci prese di contropiede dematerializzandosi tra i radi
viaggiatori di passaggio. Appena un saluto frettoloso,
lasciandoci ovviamente il conto da pagare. Sconcertati,
cominciammo a maledire il costo dei biglietti ferroviari
che avevamo sostenuto (700 lirette a testa, tra andata e
ritorno. Come dire, almeno tre o quattro pacchetti di
sigarette in meno. Questo, senza tener conto delle
consumazioni). L’amico che aveva assistito con me muto
alla scena, scuoteva il capo e mi chiedeva chi fossero
questi quechua e perché dovevamo prendere a modello i
boliviani e gli egiziani, con tutti i guai che già
tenevamo a casa nostra. Era venuto per cercare
un’alternativa, stava ritornando alla base con idee
ancora più confuse. Per tirargli su il morale, nel
vagone solitario parafrasai una battuta di cabaret,
dicendogli che se la rivoluzione stava per arrivare, noi
non avevamo ancora i capini di vestiario giusti da
metterci. Non sorrise gran che. Pensava, giustamente,
che avevamo rinunciato a zeppole e struffoli per una
stramba serata in una stazione semideserta. Si consumò
quindi quel Natale senza che niente di rivoluzionario
succedesse davvero: facemmo però a tempo per passare la
mezzanotte a casa di amici, con panettoni, spumante e
qualche giro di baccarat che, dalle nostre parti, serve
per onorare degnamente la festa. La letterina di
convocazione per il comizio arrivò davvero qualche
giorno dopo e si rinnovarono nel commiato i fraterni
abbracci rivoluzionari. La facemmo in mille pezzettini
assieme a tutto il fascicolo che avevo accumulato. A
Barra non andammo, né ci facemmo mai più vedere.
Passarono rapidamente le stagioni, ci ritrovammo di
colpo nell’autunno caldo. Agli estremismi velleitari, i
poteri veri risposero col dramma di Piazza Fontana. Per
chi non aveva conservato spirito critico, fu l’inizio di
un sonno ipnotico che culminò con l’assassinio di Aldo
Moro. La storia era effettivamente cambiata in peggio da
un bel pezzo. A proposito del comizio di Barra, sapemmo
poi che le masse operaie alle quali avremmo dovuto
parlare non raggiunsero neanche le dieci unità. Magari
con cinismo, ma con apprezzabile buon senso, dovemmo
ammettere che la domenica del comizio avevamo fatto cosa
buona andando a passeggiare sul lungomare corteggiando
come il solito, da lontano e senza troppo successo, le
vezzose fanciulle in fiore della borghesia locale.
Vincenzino Barone (Salerno) |