UN VECCHIO PINO   
 

Non conosco la sua età. Lo ricordo quasi com’è ora o meglio com’era fino a tre/quattro mesi fa, dai tempi della mia infanzia, quando con i miei genitori venivo a Diara, in estate, a visitare gli zii Rosa e Perletti. Fin d’allora svettava ben sopra i tetti delle case vicine ed era molto più alto della ciminiera in mattoni della vecchia filanda in disuso che faceva parte della proprietà e che fu demolita negli anni ’90 per far posto a due palazzi.  L’età del pino dovrebbe avvicinarsi quindi, e magari superare, i duecento anni. A quell’epoca, la casa ed il parco erano di proprietà dei conti Sanvitale di Parma oppure, prima di loro, di una certa famiglia Lupi.

Verso la fine degli anni ’30 mio padre decise di sistemare una casa che faceva parte della proprietà di Diara e la utilizzò  prima come seconda casa, per la villeggiatura, nei periodi estivi che precedettero la seconda guerra mondiale e poi come residenza permanente, quando la città di Piacenza cominciò ad essere bombardata dagli angloamericani.

Mio padre, gran cacciatore, mi aveva regalato un fucile calibro 9 ad un colpo ed io mi aggiravo fin dall’alba per il grande parco a caccia di passeri, merli ed altri uccelli del genere, ma la portata del fucile non era sufficiente a raggiungere i rami più alti del pino, dal quale mi guardavano con una cert’aria di scherno gli uccelli più furbi.

I pini, per la verità, a quel tempo erano tre, molto vicini l’uno all’altro, ma negli anni  ottanta ne fu abbattuto uno perché era rinsecchito e diversi rami pesanti si erano già staccati dalla sommità precipitando al suolo in giornate di forte vento. Due pini erano rimasti e parevano molto fiorenti. Ogni anno si allungavano e si allargavano di qualcosa e lasciavano cadere centinaia di grosse pigne resinose che il giardiniere riusciva a vendere a chissà chi.

Quando ero un ragazzo, con mio cugino Camillo Perletti avevamo costituito una specie di società sportiva e i tre pini erano il nostro simbolo, il logo della nostra società che aveva anche una bandiera, un tricolore bianco rosso verde con la scritta centrale “VIS”. Una volta il fratello maggiore di Camillo, Pippo, che allora frequentava già l’Accademia Navale di Livorno e non si degnava di partecipare ai nostri giochi ed alle nostre competizioni sportive, s’arrampicò su uno dei pini, fino in cima, e legò alla punta la nostra bandiera, con disappunto di Camillo il quale, per quanto sportivo, non si peritava certo di andare a recuperarla. Se ne incaricò un nostro amico che si chiamava Verdi. Si arrampicò sul pino e riportò giù la bandiera, fra le nostre ovazioni di “Viva VERDI”, il famoso grido risorgimentale che, come noto, significava “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”.

I tre pini e poi i due rimasti dopo l’abbattimento degli anni ’80 si vedevano e si vedono da lontano, anche se ora molte case ne ostacolano la visuale, ma solo in parte. Tre anni fa, in una giornata di vento forte, alcuni grossi rami precipitarono sul tetto della casa vicina, quasi sottostante, ed in parte lo sfondarono, rompendo parecchi coppi ed un pezzo della lastra di eternit. A seguito di quell’incidente ne feci tagliare la parte alta, verso la cima, che oscillava paurosamente e ormai  rappresentava un pericolo permanente.

Ora è arrivata l’ora, per il pino secco, di procedere all’abbattimento. E’ un dolore per me, quasi un’anticipazione di ciò che fatalmente accadrà anche a me fra non molto. Ne parlo serenamente, perché sono del tutto consapevole che al mondo c’è una sola certezza, quella della fine per tutti noi. Io non sono ancora rinsecchito, ho ancora quasi tutti i rami di un verde abbastanza vivace, anche se qua e là qualche rametto da segni di stanchezza.

Resterà solo un pino, dei tre che io ricordo, un albero ancora fiorente ma solitario. Svetterà da solo nel grande giardino, fra le case. Resterà solo a ricordare una parte importante della mia vita e di quella della mia famiglia. Resterà a testimoniare dei nostri giochi da bambini, delle ansiose gare sportive, delle riunioni familiari ai suoi piedi nelle calde serate estive, delle interminabili discussioni fra mio padre e gli zii, della guerra, delle scaramucce fra fascisti e partigiani, degli assalti di questi ultimi alle colonne militari di passaggio, dell’arresto di mio padre e di mio zio da parte dei militi fascisti, delle fughe sulle colline quando qualcuno correva ad avvisarci dell’imminente arrivo di colonne fasciste o tedesche, dell’abnegazione di mia madre nei lunghi mesi dell’occupazione, nel terribile inverno 1944-1945, della fame e dei pericoli corsi, poi della gioia della Liberazione, dei primi amorazzi da adolescenti. Il pino sopravvivrà, forse, anche a me, com’è riuscito a sopravvivere ai miei genitori, a tutti gli zii e cugini che nei decenni sono vissuti alla sua ombra, guardandolo oscillare al vento o nascondere la sua cima nella nebbia autunnale.

Poi arriverà anche per lui il tempo di lasciare questo mondo precario, questa vita che fatalmente ha un termine, per tutto ciò che esiste. Vi sarà un altro mondo per gli alberi, per gli animali, per le cose? Vi sarà un altro mondo per me e per le persone che mi sono o mi sono state care? Forse.

 

Giacomo Morandi - Rivergaro

 

 

 

 

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Amici Comit News - settembre 2013