Il piano di Adele    

 

Pietro capì l’antifona e abbozzò: “Eravamo venuti per... e ora s’è fatto tardi”.
Pertinace lo squadrò con uno sguardo tagliente fra il severo e il meravigliato e in quell’istante dubitò delle qualità di Pietro, grazie alle quali gli concedeva, come si usa dire, tanto spazio. Si insinuò nel suo animo l’ombra del sospetto di perdere tempo con un individuo che forse egli aveva sopravvalutato.
Pietro però non aveva voluto dire ciò che Pertinace sospettò e cioè che, parlando di Filippo, non si fosse nello stesso tema precedente, sicché ne ammorbidi l’impressione e aggiunse: “A quest’ora mia moglie è sfinita con quei tre diavoli”.
La naturale propensione a vedere nelle cose della vita il lato positivo e a trascurare, quando c’è, quello negativo, portò Per-tinace con la mente nella casa di Pietro e dovette onestamente riconoscere che la moglie faceva miracoli per riuscire a mandare avanti la famiglia e a cogliere ogni decorosa occasione di piccolo guadagno che le consentisse di colmare i vuoti lasciati dal marito durante i periodi di inattività con lui stesso - Pertinace - e, pensava lei, con altri del suo stampo.
E con questa breve scorreria mentale Pertinace assolse Pietro dall’affrettato giudizio. Gli poggiò una mano sulla spalla per restituirgli, col solo contatto, la fiducia ma anche per aiutarsi a mettersi in piedi e rientrare in paese. Quando fu in posizione eretta, portò istintivamente una mano alla tasca della giacca forse per accertarsi del suo libriccino o forse per rammaricarsi di non averlo letto, non si sa.
Pietro usciva vittorioso dalla disputa metereologica con Pertinace. I nuvoloni erano scomparsi da un pezzo lasciando sgom-bro un cielo pulito ma non più luminoso, prossimo al crepuscolo, data l’ora. In lontananza si stagliava il profilo netto delle colline punteggiato qua e là da casette bianche di calce, in qualcuna delle quali tremolava già la luce delle lampadine che si intuivano appese al soffitto soltanto dal filo elettrico.
Micone aveva accostato la porta della casetta e con le sue capre se ne tornava a casa leggermente ricurvo sul bastone che usava per appoggiarsi e per dissuadere le due bestie dalla pericolosa tentazione di brucare l’erba giovane dei prati attigui alla stradetta.
Scambiò i saluti coi due che procedevano lentamente e, quando li superò di una buona cinquantina di passi, riprese a parlucchiare con le capre come accade a chi, vivendo a lungo in solitudine, coglie il pretesto di un animale per “sentirsi”, per pensare a voce alta.
Via via che si allontanava, perdeva i propri caratteri fisici per assumere quelli di una semplice sagoma umana, nera, con due capre al seguito, come nei giochi delle ombre cinesi. A Pertinace invece vennero in mente personaggi mitologici, ma Pietro lo distrasse con un’uscita infelice: “Ma è pazzo Micone? parla da solo?”. “Micone non è pazzo, mio caro, egli è più savio di quanto tu non immagini” intervenne Pertinace con tono di voce lievemente alterata.
Ora, scomparso Micone come figura in movimento di tutto
lo scenario, l’atmosfera intorno acquistò un che di solenne nonostante l’alto silenzio o forse proprio per questo. Sembrava che da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa di importante ma non accadde nulla. Solo i rintocchi del campanile, annunciami la fine del vespero, risuonarono magicamente come le note pulite di un pianoforte in una vasta sala da concerto.
Accelerarono i passi e fecero in tempo a incrociare nella piazza una frotta di donne, in prevalenza vecchie, seguite da qualche vociante nipotino che, finita la funzione in chiesa, guadagnarono rapide le loro case.
Imboccarono il vicolo e si salutarono senza tanti convenevoli. Mariascia, solenne, quasi immane, attendeva Pertinace sul portone di casa. Alle sue spalle la luce del corridoio era accesa, cosicché la figura apparve più imponente del solito.
Quando scorse anche Pietro si avvampò del solito rancore e, ritrattasi per lasciar passare Pertinace, richiuse il portone talmente forte che fece tremare i muri.
Pietro ebbe un sussulto ma era ormai tanto preso dal pensiero di quello che avrebbe dovuto raccontare a sua moglie per giustificare un’assenza tanto lunga che non vi badò, anche se ne conosceva i motivi. Si presentò in casa mogio mogio con il fare del colpevole di una mancanza alla quale le parole che seguirono, impacciate e senza nesso, non poterono porre alcun rimedio.
Sua moglie, che alle doti che sappiamo, univa anche un’intelligenza viva e penetrante, lo lasciò parlare senza seguirlo granché, ne approfittò anzi per dare mentalmente gli ultimi ritocchi al piano che aveva a lungo architettato per tentare di mettere fine alle frequenti assenze del marito.
Quando questi ritocchi furono ultimati, lo interruppe bruscamente. Pietro ormai era uno straccio inzuppato di sudore. Gli disse “Sai, m’è venuta un’idea. Luigino dovrà essere cresimato fra due mesi”. Pietro, che dall’interruzione aveva tratto un sospiro di sollievo, ricadde nella confusione, non riuscendo a collegare la cresima di Luigino con il discorso, anzi con il grumo indistinto di frasi sconnesse che aveva prima tentato di farfugliare alla moglie.
Un flebile, interrogativo “beh?” gli uscì dalle labbra. La moglie continuò: “Ho pensato che Pertinace, il tuo amico, potrebbe fargli da padrino”.
Ella era persuasa di prendere con questa mossa due piccioni ad una sola fava - come si dice comunemente - e cioè, da una parte, recuperare totalmente il marito al lavoro, visto che le consuetudini del paese imponevano al padrino di fare visita al figlioccio nei giorni festivi e, dall’altra, mantenere, anzi rafforzare, l’amicizia della sua famiglia con Pertinace perché, se anche aveva motivo di lagnarsi delle assenze del marito, sotto sotto faceva piacere anche a lei, per il prestigio che poteva discenderne, il rapporto con tanto personaggio.
Pietro rimase interdetto e non seppe sul momento cosa dire. Raccolse le residue forze e dopo una breve pausa accennò: “E chi glielo dice? non lo sai che non è praticante?”. “Lo so” rintuzzò la moglie, ormai decisa a portare avanti il suo progetto” lo so, ma so anche che in chiesa di tanto in tanto ci va, non solo, ma è anche buon amico del parroco”.
Effettivamente Pertinace in fatto di religione era abbastanza tiepido. Egli continuava a dire che tutte le religioni, grosso modo, si somigliano e tutte vogliono e predicano il bene dell’uomo, ma non si stancava di ripetere però che quanto più ogni religione allarga i suoi confini e conquista un sempre maggior numero di fedeli, tanto più - paradossalmente - aumentano i pericoli per la pace.
Non è che volesse stabilire l’equazione: più fedeli uguale più guerre, no. Intendeva soltanto dire che con l’espandersi nel mondo delle varie credenze religiose non c’è stato un parallelo restringersi della cattiveria dell’uomo. Tutto qui.
La sua era più propriamente una posizione agnostica, di quelle piuttosto propense a sperare che a giurare su una vita ultraterrena, nella quale dopo le sofferenze di questa terra, possa venire una ricompensa per tutti indistintamente. Respingeva perciò l’idea di un padre che dà la vita ai propri figli per poi punirne in eterno una parte, sicuramente la più numerosa. “Che razza di padre sarebbe” andava dicendo, scagliandosi con vee-menza contro la teoria del libero arbitrio accostata di proposito per giustificare quelle che definiva punizioni impensabili e inammissibili.
La moglie di Pietro aveva ragione. Pertinace difatti andava in chiesa soltanto in certe ricorrenze, quando sapeva che il parroco avrebbe fatto prediche importanti a celebrazione di spiccate personalità di Santi oppure a commento di eccezionali passi del Vangelo. Lo incuriosivano, del parroco, le collocazioni storiche, i riferimenti ai fatti, il formidabile eloquio tutto infiorato di citazioni e la vasta cultura. E questi erano anche i motivi per i quali ne era buon amico.
Da parte sua, il parroco ammirava di Pertinace l’assoluta pu-lizia morale, il candore e l’onestà intellettuale e, seppure, come tutti i parroci di questo mondo, diffidasse dell’esercizio premi-nente, pressoché esclusivo, della ragione, coltivava in cuor suo la segreta speranza di ricondurlo all’ovile. Sapeva benissimo che si sarebbe trattato di operazione lunga e difficilissima, ai limiti - considerata la forte personalità del soggetto - dell’impossibile. Ma non disperava: il suo obiettivo prevedeva tempi lunghi e tanta, tantissima pazienza.
La moglie di Pietro non si lasciò minimamente turbare dalle esitazioni di suo marito e concluse il discorsetto con una frase che risultò convincente e al medesimo tempo perentoria: “Ne parlerò io stessa al signor parroco”.
Pietro mise la coda fra le gambe e, senza perdersi in altre chiacchiere, contento anzi che l’iniziativa fosse rimasta alla moglie, consumò la cena e andò a dormire. Faceva fatica a prender sonno dopo una giornata tanto densa, ma il cadenzato russare del figlio maggiore, che dormiva supino nella stanzetta a fianco,
lo cullò dapprima in un sugheroso torpore e quindi l’addormentò.
La mattina dopo sua moglie non perse tempo. Alla messa delle sette c’erano le solite quattro vecchiette che, dopo la funzione, si affrettarono a casa, chi per le faccende di sempre e chi per svegliare e accudire i nipotini, dispensandone le madri che aiutavano i mariti nei lavori dei campi.
Si diresse decisa verso la sacrestia al seguito del parroco che ne vide la figura con la coda dell’occhio senza voltarsi. Non era accompagnato da chierichetti, sicché, varcata la porticina, si fece di lato per farla entrare e in un lampo, con gesti che denotavano lunga dimestichezza, si tolse la stola, baciandola, e gli altri paramenti. “Dev’essere cosa importante se sei venuta da me a quest’ora con quel po’ po’ che hai da fare in casa. Buongiorno, siediti e racconta tutto” le disse col tono rassicurante di chi ha consuetudine di casi umani e sa mettere a proprio agio con due parole chi gli sta di fronte.
“Buongiorno signor parroco” rispose lei senza impaccio e senza sedersi “sono venuta da voi per un favore grande. Ho pensato che il padrino migliore per Luigino è il maestro Pertinace. Non so come fare a dirglielo ma credo che la persona indicata per questa necessità siete voi. Potete farlo?”. Il parroco fu sorpreso da due cose nella stessa misura. La prima fu il tono estremamente deciso usato dalla donna e quel “potete farlo” che non era conclusivo, ma lasciava trasparire che, in caso di rifiuto, si sarebbe rivolta ad altra persona. La seconda fu la scelta del soggetto per il quale (lo aveva sentito dire) la donna non nutriva, almeno a parole, eccessiva simpatia e lui invece più d’una per-plessità.
Non ebbe il tempo di riaversi che quella infatti incalzò: “Se non potete farlo voi ne parlerò con Mariascia”.
L’accostamento, con tutto il rispetto che nutriva per questa sfortunata creatura, alla quale le circostanze della vita avevano negato l’amore e la maternità, rendendola di carattere duro e aspro, lo turbò non poco. L’opportunità che, d’altro canto, gli si offriva era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Egli l’accettava e l’avrebbe amministrata con il massimo scrupolo per saggiare - e qui vedeva la mano della Provvidenza - il grado di resistenza di Pertinace alla lunga marcia di ritorno all’ovile.
“Va bene, va bene, gliene parlerò io. Sappi però che la cosa è molto difficile” le rispose. “D’altra parte devo farlo subito perché il tempo stringe” concluse. “Vi raccomando di riuscire, signor parroco, è molto importante. Se concludete vi dirò poi perché. Ora torno a casa dai diavoli. Grazie e buona giornata” gli disse, sempre più decisa, voltando le spalle e uscendo. Il parroco la seguì con lo sguardo e, quando dal portoncino della sacrestia che stava per richiudersi intravide l’altare, si rammentò della Provvi-denza e tornò in chiesa a recitare una preghiera, non si sa se per ringraziare o per propiziarsi il coraggio necessario all’impresa.
Pertinace in quei giorni era assente perché convocato dal Provveditore per lavori inerenti all’attività scolastica. Il parroco interpellò Mariascia per sapere quanto tempo sarebbe rimasto assente e per fargli dire che passasse da lui al ritorno.
Mariascia, essendo la prima volta che il parroco chiedeva direttamente di Pertinace e, per di più, con un invito in canonica, drizzò le orecchie sospettosa.
L’assenza di Pertinace si protrasse per tre giorni durante i quali crebbe l’ansia di Pietro e di sua moglie, e si acuì la sospet-tosa curiosità di Mariascia. Il parroco invece mise a punto in tutti i particolari il discorso che intendeva fare per porre l’assedio alla prevedibile opposizione del padrino designato.
“C’è il parroco che vi vuole parlare. Dice se potete andare da lui” furono le prime parole che Pertinace udì da Mariascia appena rimise piede in casa. “Il parroco? e cosa vuole?” chiese d’istinto Pertinace, ben sapendo che Mariascia non gli avrebbe potuto rispondere perché il parroco non era tipo da rivelare proprio a quella i motivi di tanta eccezionale circostanza. E continuò: “Quando l’ha chiesto?”. “Tre giorni fa” fu la risposta cupa. “Vai a dirgli che nel pomeriggio avanzato, verso le sei, andrò da lui” ordinò Pertinace.
Nel giro di dieci minuti un “va bene” di Mariascia confermò la disponibilità del parroco. Pertinace non si preoccupò affatto dell’iniziativa, anzi in cuor suo ne fu lieto perché sapeva che col parroco non c’era da aspettarsi che incontri, se non dilettevoli, quanto meno interessanti per qualche verso. Semmai una velata apprensione gli destava il luogo dell’incontro - la canonica -, visto che gli altri erano sempre stati casuali, sul sagrato  o per strada.
Il parroco fece trovare pronte, per l’ora fissata, due sedie di velluto rosso cupo a fianco del tavolino di noce intarsiato vicino alla finestra che dava sull’orticello spoglio intorno all’abside della chiesa e, su un piattino, con lo stemma della diocesi, depose un centrino di pizzo ricamato, ponendovi sopra una bottiglia di marsala. A questa affiancò un’alzatina in vetro a due piani che colmò di pasticcini secchi sui quali spiccavano colorati pezzetti di frutta candita.
Pertinace si cambiò d’abito, indossò l’inseparabile cappello di paglia e uscì di casa che mancavano cinque minuti alle sei. Lo accompagnò fino alla svolta del vicolo lo sguardo più sospettoso che incuriosito di Mariascia che avrebbe pagato chi sa cosa per essere presente al colloquio.
“Entrate, entrate” disse il parroco a voce alta rispondendo alle nocche di Pertinace sul portoncino della canonica. “Buona serata” continuò “accomodatevi qui” e gli indicò la sedia che meglio dell’altra inquadrava l’abside di mattoni rossi costolati di travertino. “Grazie” rispose Pertinace “a cosa debbo tanto onore?” e si tolse il cappello sedendosi. “Intanto” proseguì il parroco sturando la bottiglia di marsala “beviamoci un bicchierino e accompagniamolo con una pasta secca”.
Gli porse il bicchierino e gli avvicinò l’alzata con i pasticcini che Pertinace accettò e consumò senza tante cerimonie. “Ora vi dico di che cosa si tratta” incominciò il parroco facendo appello mentalmente agli appunti che, nei tre giorni di assenza di Per-tinace, aveva preparato con tanto zelo. Si dilungò più di quanto Pertinace ritenesse necessario, divagando su argomenti che questi faceva fatica a collegare con quello principale. Alla fine concluse con un implorante “che ne dite?” visto che Pertinace, per l’intero monologo, non aveva fatto trasparire il ben che minimo segnale di assenso o diniego.
Dalla parete, dove ne era appeso il ritratto a olio racchiuso in una sontuosa cornice dorata, un anziano vescovo in zucchetto cremisi sembrava partecipare con lo sguardo trasognato agli impacciati maneggi del parroco.
“A me sta bene, se sta bene a loro. Purché non ci siano storie con la diocesi” disse d’un fiato, senza lasciare il tempo al parroco di godersi il piacere della prima frase. L’amaro della seconda
lo aveva messo in conto, ma Pertinace, preciso come sempre, volle porre subito le mani avanti, sperando tuttavia che ostacoli non ve ne fossero, più per l’acuto desiderio di venire a contatto con un vescovo - circostanza che non è di tutti i giorni - che, in fondo in fondo, per assecondare la vanità, pensava immodestamente, della famiglia di Pietro.
L’intesa fu raggiunta e ormai non rimaneva che sistemare le cose con la diocesi dal lato burocratico, al che il parroco provvide con l’equilibrio che il delicato caso richiedeva. La notizia alla famiglia di Pietro sarebbe stata data in un secondo tempo insieme con la raccomandazione di non farvi tanto clamore. Fu inutile perché, non si sa come, in un baleno tutto il paese ne venne a conoscenza. Molti ne gioirono perché, pensarono, se un uomo siffatto si prestava a fare il padrino, voleva dire che era già sulla strada dei ripensamenti. Altri ne gioirono per Luigino che diventava figlioccio di un uomo dal quale avrebbe imparato tante cose. Molti furono contenti, e velatamente invidiosi, per Pietro che avrebbe potuto ricevere le visite periodiche di Pertinace e ne avrebbe tratto prestigio e chi sa quali vantaggi.
Soltanto Mariascia era indispettita sia per il padrinaggio in sé e sia perché dopo la cresima di Luigino avrebbe dovuto, obtorto collo, abbassare le ali con Pietro, moderare la condotta e, forse, perfino riverirlo. Il che, francamente, la mandava addirittura in bestia.
Ci fu un altro incontro fra il parroco e Pertinace, per strada e di breve durata, nel corso del quale però furono definiti i dettagli della cerimonia e le modalità di partecipazione.
In casa di Pietro, come si può facilmente immaginare, la no-tizia fece l’effetto di una bomba. Pietro si illudeva di essere il più felice, ma c’era chi - come la moglie - lo era ancora di più. I parenti di lui e di lei vennero a felicitarsi. Chi invece ne restò pres-soché indifferente fu Luigino il quale, frequentando assiduamente il corso di preparazione al sacramento, concentrò maggiormente la sua viva immaginazione sulla figura del vescovo, che il parroco continuava a descrivere come un diretto discendente di Gesù Cristo in terra.
La data della cerimonia non era molto lontana e i preparativi fervevano: ogni giorno che passava se ne vedeva un segno nuovo.
Ora erano le luminarie ad arco da una casa all’altra della strada principale, destinate a formare una specie di galleria luminosa con lampadinette predisposte a figura di angeli e di ghirlande, ora
i manifesti che inneggiavano con parole altisonanti alle eccelse virtù del vescovo, ora gli addobbi di vario genere lasciati alla libera inventiva delle singole famiglie che, tuttavia, ripetevano semplici e antiche tradizioni fatte di altarini predisposti negli slarghi della strada, di folti rami di castagni collocati a schermo dei muri delle case più diroccate, di cordoni di lampadine che incornicia-vano i balconi più belli o i portoncini ad arco di granito, e di tanti altri simboli devozionali ai quali partecipava pure la gente dei paesi vicini che avrebbe portato i figli alla cresima.
Una decina di giorni prima della cresima Pertinace si sentì in dovere di fare una visita in casa di Pietro e vi si preparò in un modo del tutto inconsueto. Ordinò a Mariascia di comprare una torta farcita di crema e dei pasticcini. Due confezioni separate. Per Mariascia fu il colpo di grazia. Si aspettava da un momento all’altro - è vero - questi gesti di cortesia perché figuravano, come si direbbe a teatro, nel copione, ma sperava segretamente che avvenissero il più tardi possibile o, meglio ancora, a sua insaputa. Così invece non fu.
Fece l’acquisto e portò a casa le due confezioni che Pertinace avvolse in un foglio di carta grande ricavandone un solo pacco, che prese e si avviò verso la casa di Pietro.
Qui, dopo il comprensibile scompiglio, consumarono allegramente i dolci, innaffiandoli con un sorso di vino marsalato.
Il che rese l’atmosfera più calda e rinsaldò i vincoli d’amicizia.
Quando i figli di Pietro finirono di mangiare i dolci, Pertinace si alzò.
Quindi, rivolto a Pietro: “Tu domani cosa avrai da fare? Hai impegni?”. Pietro restò interdetto, girò gli occhi verso la moglie per indovinare i pensieri nell’istante stesso in cui lei stava ri-spondendo a Pertinace “No, Pietro non ha alcun impegno”. “Dovrei recarmi a Guardafili per vedere se Pelucca mi ha sistemato la botte. Ci vado in calesse. Parto verso le dieci e mangio a metà strada. Alle due dopopranzo sono là e alle sette di sera dovrei essere di ritorno” disse d’un fiato Pertinace. “Se tua moglie ti lascia venire mi farai compagnia” concluse.
Pietro e sua moglie si guardarono interrogandosi e decisero per il sì. “D’accordo, allora, ti aspetto domani. Statevi bene. Vi saluto” disse infine Pertinace e se ne andò.
Rincasò che Mariascia aveva pressoché ultimato di preparare la cena e, incrociandola nella sala da pranzo, le annunciò il progetto per l’indomani.
Le ordinò di strigliare il cavallo e preparargli un’abbondante razione di avena, metà per la stessa serata e metà per la mattina dopo. E di farlo bere abbondantemente.
“Sissignore” rispose Mariascia. “Ci andate da solo?” aggiunse, temendo di ottenere una risposta negativa.
“No, con Pietro” disse Pertinace, ignaro dell’astio che questo nome suscitava nell’animo di quella.
“Avrei dovuto immaginarlo” pensò Mariascia masticando amaro.

 

Lorenzo Milanesi - Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
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Amici Comit News - settembre 2013