Il bottaio   


Il cielo si manteneva coperto di nubi e l’aria, nonostante la stagione, era fresca. Il cavallo, forse perché la strada era leggermente in salita, o perché fin dalla partenza non fu mai sollecitato, trotterellava ora pigramente. Pertinace prese le redini da Pietro e fu come se il cavallo ne avesse percepito il motivo, perché riprese il normale trotto.
La strada andava in su per la collina, aggirandola, e fra gli alti cespugli che si alternavano alle querce, separati le une dagli altri da piccole pianticelle selvatiche con fiorellini lilla, l’orizzonte si allargava e l’occhio poteva spingersi lontanissimo fino a distinguere la cima del campanile del paese.
Quello che risultava straordinario a vedersi era la spontanea geometria degli orti e dei poderi nella pianura che era rimasta alle spalle e di cui, passandoci in mezzo, non ci si avvede. I colori, dai toni ora intensi ora teneri, del verde, del giallo ingiallito, dei marroni, faceva intuire facilmente i rispettivi tipi di colture. Così c’erano lunghi spazi coltivati a leguminose sostenute da sottili canne secche, altri a pomidoro, altri a patate, altri a granoturco, altri ancora a vite, altri a canneto e qua e là alberi da frutto, alcuni con fitte chiome, altri quasi spogli.
Un nastro celeste di acqua zigzagava come un serpente, con sapiente percorso, fino ai margini estremi della pianura per as-sicurare a tutti i contadini l’irrigazione dei campi.
Pietro, via via che gli alberi cambiavano d’aspetto, si infervorò nella minuta descrizione della qualità dei fusti e dei legni, cominciando dalle querce. Pertinace lo ascoltava volentieri e pensava d’aver fatto bene a farsi accompagnare in questo viaggio da un esperto che poteva verificare meglio di altri il lavoro fatto da Pelucca.
Ormai ne erano vicini e, dopo un’ampia curva della strada in piano a mezza collina, si udirono reiterati colpi sordi di martello. Non c’era dubbio. Il cavallo, senza esserne sollecitato, accelerò leggermente dirigendosi verso i rumori e poco dopo si fermò davanti a un ampio capannone.
Discese per primo Pertinace. Ordinò a Pietro di procurare acqua e avena per il cavallo e imboccò deciso l’ingresso. Il martellare cessò quando Pelucca vide dall’interno stagliarsi nell’ampia apertura dell’entrata il calesse e i due uomini.
Nel capannone pioveva dall’alto del soffitto, attraverso due larghe aperture a vetri, sollevate perché corresse l’aria, una luce morbida e polverosa.
Lungo i muri erano allineate in bell’ordine tantissime botti di varie dimensioni. Talune erano nuove, pronte forse per la consegna, altre invece erano vecchie, pronte per il restauro, altre ancora erano restaurate e mettevano in mostra le doghe nuove di zecca incastonate fra quelle vecchie. In mezzo a queste c’era quella di Pertinace.
Pelucca riconobbe Pertinace già sul calesse e quando questi entrò, lasciò cadere il martello, salutò con la mano e si diresse verso una botte restaurata. Pertinace cambiò direzione e anch’egli si portò davanti alla botte.
Pelucca, più che di bottaio, aveva la struttura fisica del minatore. La statura era sopra il normale, i capelli crespi, la carnagione del viso, annerita non si sa come, faceva risaltare gli occhi bianchi, forati da due punti neri acutissimi. Anche i denti risultavano bianchissimi per il forte contrasto con la pelle. Era vestito con una tuta blu chiazzata di macchie d’ogni tipo, sulle quali la polvere del legno aveva depositato una sottilissima coltre fino a nasconderne i connotati. Sotto, una maglietta di cotone pur’essa originariamente blu. Un paio di sandali di cuoio, consunti, con il cinturino, stentavano a contenere i piedi enormi, neri, nudi.
Si scambiarono i saluti di circostanza e alla domanda di Pertinace se la botte fosse finalmente pronta, Pelucca rispose con un sì prolungato e con un sorriso tanto luminoso e accattivante che l’animo sensibile di Pertinace desistette dalla ramanzina che aveva intenzione somministrargli per le lungaggini.
Pelucca fece scivolare la botte dal trespolo sul pavimento e la raddrizzò adagiandola sul fondo. Le girò intorno toccando con mano le doghe nuove e il cerchio di ferro sostituito, come per dire “C’è stato da fare tutto questo lavoro e il tempo c’è voluto”.

Pertinace si dilungò ad osservare la botte senza parlare. Ogni tanto si accostava a guardare qualche piccolo particolare, ma in effetti era un modo per tergiversare in attesa dell’arrivo di Pietro, che infatti giunse a passo svelto.
Scambiò con Pelucca un saluto distratto e guardò verso Per-tinace che gli strizzò l’occhio invitandolo, senza farsi sentire dal bottaio, a controllare il lavoro fatto ma, soprattutto, ad accertarsi che le doghe nuove fossero di rovere di Slavonia come le vecchie. Solo così, gli era stato detto, la botte torna ad essere quella che era e riacquista le qualità di ideale incubatrice del mosto per ottenere vino che si chiami vino.
Pietro guardò, toccò, annusò, soppesò e alla fine sentenziò: “Ottimo lavoro” facendo tirare un sospiro di sollievo a Pertinace ma lasciando del tutto indifferente Pelucca, sicuro del fatto suo.
“Quant’è?” sbottò Pertinace liberando la tensione trattenuta. “Ma perché tanta fretta? Andatevene tranquillo. Nei prossimi giorni ve la mando e poi mi pagherete” rispose Pelucca sperando invece che Pertinace insistesse per il pagamento immediato. “No, no. Ti pago subito e me la mandi al più presto. Dimmi quant’è” rispose pronto Pertinace. Pelucca non se lo fece ripetere, gli disse la cifra, la intascò e propose di offrirgli data l’ora un bicchiere di vino bianco fresco di cantina. Pertinace rifiutò, ma Pietro, che a pranzo era stato moderato col bere, allargò le braccia e fece un cenno col capo come per voler dire “Se proprio insistete...”. Pelucca andò a prendere il vino e Pertinace ne approfittò per farsi ripetere da Pietro, non più sottovoce, il risultato del suo accertamento.
Pelucca servì il vino a Pietro e mescendolo disse a Pertinace: “Proprio nulla posso offrirvi?”. “Ma sì, fammi fare un caffè, grazie” gli rispose.
Ripartirono che il sole entrava e usciva da grovigli di nuvole che tendevano però a diradarsi. Era un po’ tardi e bisognava che
il cavallo, riposato e rimpinzato, ne fosse partecipe, per evitare di farsi sorprendere dall’oscurità.
Così Pertinace tenne per sé le redini e il cavallo ne fu avvertito. Viaggiavano ora di buona lena, il trotto era più che spedito anche per l’ottimo stato della strada che, per di più, era in lieve discesa verso la pianura.
Superarono un gruppetto di case al termine delle quali, sul lato destro della strada, era un vasto spazio di terra battuta dove sei ragazzi dai dieci ai tredici anni all’incirca giocavano scalzi con una palla che rimbalzava a stento forse per le condizioni del terreno o forse per la perduta elasticità.
Le porte del campo di calcio erano segnate da quattro rami d’albero, due per parte, conficcati nel terreno. Ai bordi, seduti sull’erba, vociavano altrettanti bambini dai tre ai cinque anni affidati in custodia ai fratelli maggiori che giocavano. Allorché questi udirono l’avvicinarsi del calesse, si fermarono e si voltarono a guardare. I più piccoli continuarono nei loro giochi.
I grandi invece lasciarono passare il calesse e poi, per abitudine trasmessa da altri nei tempi in cui da quelle parti si vedeva un mezzo di trasporto soltanto ad ogni morte di vescovo, si lanciarono al suo inseguimento sperando di riuscire a raggiungerlo e, senza esser visti, a montare sull’asse delle ruote e farsi portare così per un breve tratto. Che era poi un atto di bravura e una grande soddisfazione specialmente se qualche cocchiere insonnolito non se ne accorgeva; il che accadeva però molto di rado.
Quasi sempre invece quello agitava e batteva la frusta verso il retro del calesse per dissuadere i ragazzi ancor prima che vi montassero e risparmiare al cavallo una fatica aggiuntiva.
Si lanciarono dunque all’inseguimento senza i soliti urli, incoraggiati anche dalla posizione della frusta, inguainata come uno stendardo, ma, dopo una corsa di un centinaio di passi, cinque di essi, giudicata impossibile l’impresa, si fermarono uno alla volta e si fecero cadere sul ciglio della strada ansimando. Uno però continuò caparbiamente fino a farsi scorgere dai due con la coda dell’occhio. Immediatamente Pertinace portò il labbro inferiore sotto i denti superiori scoperti, girando obliquamente gli occhi verso Pietro senza muovere il capo per significargli di stare zitto e non muoversi. Nello stesso istante tirò leggermente
le redini facendo rallentare l’andatura, quanto bastò perché il ragazzo raggiungesse il calesse e si appollaiasse sulla barra di congiunzione delle ruote sotto i sedili. Pertinace, recitando la parte del cocchiere insonnolito, tirò ancora le redini fino a costringere il cavallo al piccolo trotto. Il ragazzo però avvertì il cambio di passo e, temendo qualche improbabile frustata, si lasciò lentamente andare, conformando il ritmo dei passi all’andatura del cavallo per non cadere e riprese a trotterellare a ritroso respirando affannosamente, con un sorriso di felicità sulle labbra.
Pertinace tirò ancora di più le redini fino a fermare il cavallo e, giratosi contemporaneamente a Pietro, lanciò verso il ragazzo un “ohè, senti!” accompagnato, quando quello si voltò, da un invito col braccio perché si avvicinasse. Il ragazzo però non ne volle sapere e si diresse raggiante verso i suoi compagni a passo lento.
“Li vedi?” disse Pertinace. “Certo che li vedo” rispose Pietro senza capire che Pertinace lo invitava, con la domanda, a fare un confronto fra i cinque che avevano desistito e il sesto che, seppure leggermente agevolato, era invece riuscito ad aggrapparsi al calesse. “Non noti che il ragazzo caparbio, pur essendo il più grande di età, è anche il più piccolo di statura? E non credi forse che la sua impresa assuma valore ancora maggiore se, com’è facile immaginare, egli nella partita a palla è quello che corre e si stanca più degli altri?” disse Pertinace sollevando leggermente le redini e facendole ricadere sul posteriore del cavallo perché riprendesse il trotto.
Poi continuò: “Questa è una delle tantissime prove di cosa sia e come agisca la forza della compensazione. Il ragazzo è consapevole di essere il brevilineo della compagnia e quindi, perennemente tormentato da questa sua condizione, cioè frustrato, ha cercato la rivalsa che il momento gli offriva, sfruttando un pretesto occasionale e ha voluto dimostrare agli altri, prima che a se stesso, che con gambe più corte era capace di fare meglio dei compagni che hanno gambe più lunghe, come quelle che ardentemente lui vorrebbe possedere. Puoi star sicuro che egli si comporta più o meno allo stesso modo anche quando gioca a palla e in ogni altra attività”.
“Avremo comunque occasione di riparlarne dopo la cresima. Ora bisogna accelerare il passo perché vedo già che non stiamo rispettando i tempi e per un motivo o per l’altro finiremo per farci sorprendere dall’oscurità”.
Pertinace stimolò il cavallo perché aumentasse il ritmo del trotto e ottenne che questi galoppasse nei brevi tratti rettilinei e piani.
I discorsi dei due furono poi frammentari e spaziarono da un argomento all’altro, il bottaio, i cibi consumati, il passaggio a livello, i contadini, il tempo, senza dilungarvisi più di tanto, quasi con la stessa premura di concludere il viaggio.

 

Lorenzo Milanesi - Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"

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Amici Comit News - settembre 2014